“Quando nutriamo noi stesse, altre sono curate.
Quando nutriamo i nostri sogni, diamo vita ai sogni dell’umanità.”
(Le Tredici Madri Clan delle Origini – Jamie Sams)
I cerchi femminili (e non solo) sono nati con l’intento di portare cura laddove per troppo tempo non ve n’è stata. Quello che secoli fa era un rito normale e quotidiano, come il riunirsi in cerchio, ha finito per essere considerato malvagio, da demonizzare fino a essere dimenticato.
Oggi il sapore e l’armonia del cerchio stanno tornando utili. Una forma che, a livello inconscio e archetipico, ci rimanda a tutto ciò che é nido, alla linea dell’orizzonte, alla protezione, al sole e alla luna, ai frutti maturi sugli alberi, alle corolle dei fiori… La vita intera racchiusa in un simbolo che si evolve in Ruota, quando ci riappropriamo della ciclicità insita nella nostra esistenza.
Per secoli l’essere umano ha vissuto con questa forma come compagna: la sua casa e il focolare sono stati circolari finché non ha abbandonato i sentieri naturali in favore degli spigoli, della rigidità e delle gerarchie. Allora, le sue case sono diventate quadrate o rettangolari, così come anche il luogo che custodiva il fuoco, fulcro della vita quotidiana.
Ritrovarsi in questo tempio senza mura né colonne che il cerchio rappresenta diventa costruttivo e potente quando si mantiene l’attenzione focalizzata sulla Cura e non sul dolore o sul rimpianto, quando impariamo a com-prendere che non siamo esseri fissi e rigidi, ma mutevoli, morbidi, dai confini sottili.
Spesso, come esseri umani, riusciamo a complicare ciò che invece é semplice come un respiro. Creiamo cerimonie complesse, ingannandoci che esse siano fondamentali, ma la verità é che il “rito” lo fa il Cuore. Incaselliamo fasi vitali in archetipi che crediamo erroneamente essere fissi, ma che infondono il massimo del loro insegnamento solo quando sappiamo sviluppare uno sguardo più morbido, che sa andare oltre gli schemi preconfezionati e accarezza pieghe e meandri di quelle energie che altrimenti restano criptiche, superficiali.
In molti, in passato, hanno confrontato e studiato le quattro fasi principali dei cicli vitali dell’essere umano e – in particolar modo – della donna, studiosi ed esperti che hanno svolto un lavoro pionieristico di ricerca dal valore indiscusso e inestimabile negli ambiti degli archetipi, dell’inconscio collettivo, della biologia, dell’antropologia, della psicologia e delle energie sottili. Queste menti sensibili hanno notato come molta della nostra realtà abbia il suo fondamento nel numero quattro, che ha la funzione di rendere stabile, di creare solidità: le quattro stagioni ne sono un esempio, ma anche i quattro elementi, le quattro fasi lunari e le quattro direzioni. Fondamenti, questi, riconosciuti e tenuti in grande considerazione già dalle antiche civiltà. Ricalcando queste energie, gli esperti di diverse epoche e culture hanno inscritto nella stessa ruota divisa in quarti le età, gli archetipi e le fasi cicliche umane: infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia; Vergine, Madre, Incantatrice, Anziana. Fasi e archetipi che si attivano e si ripresentano ciclicamente anche nella psiche e nel fisico della donna a ogni ciclo mestruale, momenti in cui, nel lavoro in Cerchio, si è chiamate a riconoscersi.
E alcune donne si sentono in colpa, sbagliate, “rotte” e non funzionanti, quando non ritrovano le caratteristiche (fisse) di questi archetipi dentro di sé nelle fasi corrispondenti del loro ciclo. Donne che non mestruano in Luna Nuova o in Luna Piena – come la Ruota mestruale comanda – che si sentono disallineate, oppure che nella loro fase della Vergine non riscontrano in se stesse gli schemi emotivi tipici dell’archetipo e si demoralizzano, perché “allora qualcosa non va in me”. (Parlo di femminile solo perché é l’ambito di cui più mi occupo, ma vale per qualsiasi ruota/cerchio e qualsiasi ambito, anche stagionale/naturale.)
Allora, quando incontro questo auto-sabotaggio, rifletto e mi interrogo: il Cerchio, gli Archetipi, le fasi del ciclo biologico/mestruale/vitale sono nati, forse, per creare ulteriori ferite laddove esistono già delle piaghe aperte? O sono stati osservati e ideati, piuttosto, per aiutarci a com-prendere chi siamo, per permetterci di svolgere un lavoro migliore ai fini dell’auto-guarigione e dell’auto-conoscenza di noi stessi?
La verità – secondo me – é che non siamo inscrivibili in una Ruota fissa e preconfezionata. Le stesse parole “Ruota” e “fissa” cozzano l’una con l’altra, non si possono sposare tra loro poiché sono in antitesi. Sembra quasi di sentire lo stridore del gesso su una lavagna, a leggere questo accostamento paradossale. Una Ruota è fatta di movimento, di morbidezza, di imprevedibilità, le stesse che abbiamo noi in quanto esseri umani, o meglio, esseri viventi sul tessuto epiteliale di Madre Terra, anch’essa ciclica, tonda, morbida, mai uguale a se stessa.
Ben venga la Ruota, quando da essa possiamo imparare che non viaggiamo su una linea retta, che alcune fasi della nostra vita sono cicliche e tendono a ripresentarsi, ed é utile saperle riconoscere per affrontarle con spirito costruttivo. Ma, quando si lavora con la Ruota, a mio parere si dovrebbe essere come acqua, fluida e adattabile.
Il cerchio, d’altronde, appartiene alla Geometria Sacra e il suo potere era conosciuto fin dalla più lontana antichità. Non a caso era molto utilizzato dai maghi e dalle streghe, così come dagli sciamani, dai capi tribù e oggi lo si utilizza ancora nelle sette religiose con scopi molto meno nobili d’un tempo. Ricorda il ventre materno, per cui é un canale per la gestazione, la manifestazione, la guarigione: ciò che porti all’interno di un cerchio si amplifica e coinvolge tutti coloro che vi si riuniscono (non solo di carne e ossa…), poiché funge da cassa di risonanza. Per questo le esperienze in cerchio sono così forti, anche se vi interagiscono solo due persone.
Ritengo importanti i gesti, le parole e i lavori che si svolgono dentro questa sacra forma, che ha la capacità di avvolgerci mentre scaviamo nella nostra storia personale per risanarne le ferite, mentre impariamo ad ascoltare la sofferenza emotiva di chi é vicino/di fronte a noi, mentre riconosciamo quel malessere come nostro e ripuliamo le memorie deleterie e stantie che ci riguardano. Se trasformiamo il cerchio in un contenitore di lamento, esso amplificherà questo sentimento. Quando, invece, esso viene utilizzato per responsabilizzarci e trasmutare la nostra vita, allora diviene un catalizzatore di rinascita e guarigione senza eguali. Per questo alcuni, ancora oggi, definiscono queste sessioni come “Cerchi-Medicina“, ma lo sono davvero solo se ne accettiamo e ne utilizziamo il potere nel modo corretto.
So di cerchi che si trasformano in crogioli di rabbia e ribellione, o ancora di lamentele e vittimismo. Si perde molto del loro senso originario e della loro potente funzione – a mio avviso – quando non vi si lavora per il benessere di tutti i membri, quando non si considerano le energie sottili in gioco (importantissime e fin troppo sottovalutate), quando non ci ri-educhiamo all’ascolto in contemporanea di noi stessi e degli altri, quando non impariamo il valore di prendere parola con il Cuore e non con la mente, quando non ci concediamo di conoscere le energie di tutti i simboli coinvolti.
Siamo nati in Occidente, dove il mondo dello spirito e quello interiore sono stati schiacciati e abbandonati per secoli in favore della superficialità e dell’esteriorità. Non abbiamo più la saggezza dei nostri avi, che davanti al fuoco e all’acqua non parlavano mai male o d’impulso, poiché conoscevano il potere amplificatore e curativo di questi elementi; non era buona cosa inquinarli con le proprie vibrazioni, se queste non erano pure. Abbiamo perso l’osservazione assidua degli astri, di come essi influenzino i nostri cicli fisici ed emotivi. Per questo un cerchio non deve diventare un muro del pianto in cui riversare solo dolori. In esso, come indica la sua vibrazione geometrica e matematica, possiamo:
Ma per far sì che tutto questo avvenga, è necessario non ingabbiarsi in schemi, corrispondenze e rigidità. Serve fatica, poiché bisogna percorrere strade non battute. Serve non alimentare ulteriormente il senso di colpa e imparare a comprendere chi siamo e cosa un cerchio possa restituirci. Serve aprire il proprio Cuore in modo Vero, senza sentimentalismi. E serve la viva volontà di essere cura per se stessi in primis e per gli altri. E’ così che il cerchio e la ruota divengono strumenti potenti, alleati inestimabili per la nostra guarigione interiore.
Nelle valli che circondano il luogo in cui vivo, le case delle streghe sono grotte, casolari arroccati, cumuli di pietre al limitare di un bosco.
E i loro luoghi prediletti per il Sabba sono prati d’alta montagna, nei quali disegnano cerchi con le loro danze a piedi nudi, invocando e incarnando le forze primordiali della natura.
S’incontrano in fitte foreste o sulle rive di polle d’acqua così scure che paiono attingere direttamente dall’Averno e alle quali si può giungere solo in volo, talmente impervie sono le zone che li custodiscono.
Amano gli anfratti naturali, nei quali si danno appuntamento, ma non disdegnano neppure il mare per le loro riunioni. E allora spiagge, scogli e isolotti divengono facilmente protagonisti di storie e leggende di bazure che scatenano marosi e tempeste o si divertono a fare dispetti a ignari marinai.
Qualche volta, pure le periferie dei borghi accolgono le loro abitazioni e le congreghe. Qui le bazure si scambiano saperi ancestrali e ricette proibite, preparano unguenti, scagliano incantesimi e ridono portando indietro la chioma selvaggia e scarmigliata.
Anche le fonti di montagna vengono toccate dalla loro magia e presenza. Le bazure le frequentano, vi si danno appuntamento e talvolta incappano in qualche sconosciuto che non sarà più lo stesso dopo l’incontro con quelle Donne di Saggezza.
Su cime aguzze hanno castelli come fossero regine di reami fatti di nuvole e vento e sulle sommità di colli più dolci accendevano i falò dei loro sabba, che furono così numerosi da aver consumato tutta l’erba, che non vi cresce più da secoli.
Neppure il camposanto è immune alla loro presenza. Si dice che alcuni custodiscano ancora tombe dalle strane forme in cui furono seppellite le streghe, o che siano popolati da luci bizzarre, opera della loro magia.
Nelle valli della Liguria, bazura (strega) fa rima con natura e coi luoghi di mezzo, soglie liminali in cui tutto è misterioso, possibile, inconoscibile, indefinibile…
Andiamo a conoscere alcuni di questi posti, allora.
Fino a pochi decenni fa, a Ventimiglia, esistevano tre grossi scogli che hanno fatto nascere sul loro conto molte leggende legate al magico. Di questi tre, ne è rimasto oggi solo uno, ultimo baluardo di racconti stregati. Il più imponente, ormai scomparso, “u scögliu autu” (lo scoglio alto), si credeva ospitasse balli di streghe sulla sua cima, impossibile da raggiungere per gli esseri umani e perciò dimora o incontro prediletto per creature sovrannaturali.
La Cabotina, a Triora, è luogo di ritrovo di streghe forse più oggi che un tempo. Era il luogo fuori le mura del borgo considerato la Salem d’Italia, un quartiere allora povero e malfamato, in cui si dice che le streghe confezionassero pozioni e scagliassero malefici, giocando a palla coi neonati che si facevano rimbalzare da un capo all’altro del vallone. Eppure, pare non fosse realmente il luogo prediletto dalle bazure, poiché divenne anche luogo fortificato. Tuttavia, oggi ha talmente tanto fascino, che ogni esoterista o praticante di stregoneria vi si reca e la frequenta.
Lago Degno è tra i luoghi più famosi e inaccessibili della zona prediletti dalle streghe liguri, oggi chiuso da un’ordinanza per via della sua pericolosità. I documenti antichi lo testimoniano come luogo in cui le bazure del territorio di Triora s’incontravano col demonio, una zona descritta come talmente oscura che neppure gli animali osavano sostarvi, mentre la polla d’acqua appariva quasi nera, come fosse fuoriuscita dall’Inferno. Oggi, per i più temerari o incoscienti, viene frequentato da chi pratica canyoning, e resta un luogo di rara e incontaminata bellezza. Le acque che lo creano hanno una particolare, forte e arcana energia, che non passa inosservata ai più sensibili.
La Rocca de’ Bazure ad Andagna è un luogo inaccessibile e oggi pressoché dimenticato, ma un tempo era assai frequentato dalle streghe, nell’immaginario collettivo. Si racconta che qui si dessero appuntamento particolari streghe-vampiro, che per accedere in volo a tale grotta avessero una formula di riconoscimento, una sorta di parola d’ordine senza la quale non si otteneva il lasciapassare.
Le streghe liguri non disdegnavano il mare. E infatti si favoleggia che le streghe di Triora volassero periodicamente fino all’isola Gallinara sotto forma di neri uccelli, per incontrare qui tutte le congreghe della zona. Non c’è che dire, avevano buon gusto in quanto a panorami e suggestioni.
A Tovo San Giacomo, nell’entroterra di Savona, il monte Bruxacrava conserva memorie di diavoli e streghe, che qui si davano appuntamento a ogni plenilunio per i loro riti magici, un passato testimoniato anche dal suo nome (Bruxacrava= brucia capra). Nottetempo, gli abitanti della zona potevano scorgere la cima del monte illuminarsi di tante fiammelle, dove l’erba ardeva per via di alò stregati. Da allora, non vi cresce più la vegetazione.
E sempre in una grotta vivevano le fate-streghe benevole di Ellera, che a seguito di un grande torto subito assunsero sembianze feline per non farsi mai più vedere dagli esseri umani che per anni (secoli?) avevano curato con amore.
Il Lac du Basto, nell’alta Valmasque (attualmente in territorio francese), vanta storie di streghe potentissime. Fra i monti che gli fanno da cornice avrebbe il suo castello Maima, Regina delle Streghe. E su questo lago vi sarebbero ancora dei frati trasformati in larici da una delle streghe esiliate in questo luogo in tempi ormai lontani.
Qualche giorno fa, mi sono ritrovata a guardare il primo episodio di una docuserie intitolata “Light&Magic” e che documenta il lavoro e le geniali doti artistiche del team che lavorò agli effetti speciali di film divenuti veri e propri cult, come Star Wars, Jurassic Park, ET, ecc.
Non ho intenzione di recensire la serie, anche perché ne ho visto solo il primo episodio, appunto, e ad ogni modo non ne avrei le competenze necessarie. Ma quel che ho visto mi è bastato per farmi riflettere su alcuni temi a me cari e che invece fanno parte della mia professione, e quindi voglio prendere questo materiale come esempio per parlare dei talenti, delle qualità, delle virtù che tanto si ricercano nella vita, insieme alla propria missione. Perché a parer mio traspare qualcosa di interessante già solo nei primi minuti della docuserie.
Perdonate l’excursus che farò, ma serve seguirlo per comprendere il messaggio finale che vorrei passasse in questo articolo.
La serie inizia con un George Lucas che, come saprete, negli anni 70 si apprestava a realizzare un progetto ambizioso, quello di un film di fantascienza che avrebbe segnato la storia del cinema e che doveva essere realizzato con tecnologie ancora poco avanzate. Era un progetto folle, per l’epoca, considerato impossibile per molti.
Eppure la passione fu più forte e spinse Lucas a non rivolgersi ad agenzie di effetti speciali già affermate nel settore, poiché sapeva di non trovarvi ciò che stava cercando. Nessuna di quelle che valutò era in grado di offrirgli la resa che aveva in mente. Dunque, si risolse a costruire da sé il team perfetto e su misura per lui, cercando geni sconosciuti (o quasi) che sapessero il fatto loro. Si rese anche conto che esisteva una “rete” di operatori di effetti speciali che si conoscevano tra loro e che talvolta cooperavano; non erano tutti professionisti affermati, tra loro c’era anche chi sperimentava effetti speciali con una modestissima cinepresa, chi girava filmati amatoriali e chi vi si cimentava unicamente spinto dalla passione. E qui viene il bello.
Contattò John Dykstra, che all’epoca realizzava effetti visivi per spot pubblicitari. E da quel contatto nacque il team che lavorò poi a Star Wars. Quando a Dykstra chiesero: “Come sei arrivato a lavorare con gli effetti speciali?”, lui rispose: “Per gioco“. Quando gli viene chiesto di parlare di sé, nonostante l’età, risponde con un largo sorriso: “Sono un ragazzo fortunato“. E già su questi due punti ci sarebbe da parlare per delle ore, perché le parole hanno un peso e sono soprattutto quelle che rivolgiamo a noi stessi a determinare chi o cosa diventeremo.
Grande appassionato di macchine, di fisica, di fotografia, è anche un pilota amante della velocità e non ha fatto altro che mettere insieme tutte queste sue passioni e hobby. All’Università gli fu assegnato un tutor seguendo un ordine alfabetico – quindi, per puro caso, sostiene Dykstra – il quale dirigeva il Dipartimento di Disegno Industriale. Una disciplina alla quale anch’egli si applicò, infine, seguendo con semplicità una via che sembrava tracciata da altri.
Un suo compagno universitario lavorava con il curatore degli effetti speciali del film 2001: Odissea nello spazio, il quale era alla ricerca di qualcuno che sapesse realizzare modelli in scala. Così, dopo l’Università, Dykstra iniziò a lavorare per la sua casa di produzione. In quegli anni disegnò navi spaziali, ne realizzò i rispettivi modelli in scala e si occupò anche della parte fotografica. Subito dopo fu contattato da Lucas per gli effetti speciali di Star Wars. Durante il colloquio spiegò come avrebbe potuto realizzarli, come muovere le telecamere per ottenere i risultati voluti. Sapeva il fatto suo, perché il suo essere anche pilota gli aveva dato esperienza di riprese dagli aerei.
In quel momento, come lui ha giustamente affermato, tutti i tasselli della sua vita sono andati al loro posto, creando un quadro perfetto: le sue passioni per le macchine, per la fotografia, per la velocità… il suo essere un pilota, i suoi studi e le sue esperienze universitarie, il suo lavoro fortuito per 2001: Odissea nello spazio… Tutto assunse un senso nuovo. E tutte quelle esperienze accumulate negli anni, che passo dopo passo lo avevano guidato su una via quasi sconclusionata, assumevano all’improvviso un perché.
E qui mi fermo.
Perché l’Anima si rivela proprio così. Ti porta a vivere determinate esperienze, ti dona le passioni giuste affinché tu possa sperimentare determinate cose nella tua vita, semina briciole di pane che sta a te cogliere, anche se sembrano non essere interconnesse e non avere alcun senso… Poi, un bel giorno, tutti i punti vengono uniti da una linea e si forma un disegno insperato, che non poteva neanche essere immaginato in precedenza.
Spesso si tende (erroneamente) a pensare che le esperienze che facciamo siano disallineate dal progetto animico, perché sentiamo vocazioni diverse, ambizioni più grandi, magari. Ma Anima si manifesta in ogni evento della nostra vita, per cui è inutile, menzognero e anche dannoso pensare di non essere in linea con la propria missione. Perché, in fondo, la nostra missione è semplicemente vivere!
Ebbene sì, tutto qui.
Talvolta si fa l’errore di credere di essere destinati a “qualcosa di più” (un qualcosa di indefinito, senza nome né forma), di non essere fatti per questa esistenza, di avere ambizioni più elevate… e, di conseguenza, si cade nella frustrazione e nell’insoddisfazione per non riuscire mai davvero a raggiungere quel fantomatico e informe ideale. E’ controproducente scervellarsi e lambiccarsi alla ricerca di chissà quale traguardo professionale/sociale/personale. Come insegnano i più grandi maestri e come viene trasmesso ormai da milioni di aforismi sparsi per l’oceano del web, a importare è sempre il viaggio, non tanto la destinazione. Vivere e attraversare la nostra esistenza fa di noi dei viandanti perfetti all’interno di un progetto animico di cui non sempre siamo consapevoli. E ogni esperienza, nella nostra vita, ci consente di sviluppare determinate qualità, le quali, prima o poi – in questa o in altre vite – ci serviranno e ci torneranno inaspettatamente utili. Sembrerà incredibile, ma a volte persino svolgere un lavoro meccanico in qualità di operaio d’industria consente di aggiungere al proprio bagaglio quelle qualità che a noi, invece, sembrano completamente inutili.
Da adolescente tutto quello che volevo era vivere e lavorare con e per l’arte. Anima, invece, con mio sommo dolore mi dirottò verso studi psico-pedagogici che mal sopportavo. Oggi la ringrazio per quell’apparente deviazione su quello che credevo essere il mio cammino, perché quegli studi stanno risultando molto utili nel mio presente, vista la mia scelta di essere un’insegante di Discipline Esoteriche e Interiori, materie che hanno il loro fondamento anche nella psicologia e nella psicanalisi, tra le tante.
Potrei andare avanti per ore a raccontare episodi simili a questo che hanno costellato la mia seppur giovane esistenza, e di esperienze come la mia e come quella di Dykstra è impregnato pure tutto il primo episodio di “Light & Magic” che, visto con sguardo acuto, dona davvero una visione dell’Anima che abita ognuno di noi e di come ogni cosa all’interno della vita abbia un suo perché. Sta a noi dimostrare Fede e credere nel profondo che ogni cosa che accade lungo il cammino sia quella giusta per noi, prima ancora di vedere il disegno concluso (credendo vides, come tramandano le tradizioni esoteriche più antiche, tra le quali anche l’Alchimia).
A lavorare dietro le quinte del primo film di Star Wars erano per lo più giovanissimi che non avevano esperienza di cinema, ma che erano stati scelti per le loro qualità, affinché queste fossero messe al servizio del progetto di Lucas. E così a qualcuno, inaspettatamente, tornò utile persino la sua umile professione di meccanico, o la sua passione per la preistoria o per il modellismo. C’era chi non aveva mai disegnato uno storyboard eppure dimostrò di saperlo fare egregiamente. Fu un azzardo assumere persone inesperte e nuove all’ambiente cinematografico, ma proprio per questo, forse, fu un grande successo. Perché Anima non ama le strade dritte e lineari. Lei si esprime al meglio in curve tortuose e deviazioni. Rifugge le zone di comfort ed esulta nell’imprevisto, nei salti nel vuoto, negli azzardi. Lucas voleva persone che non conoscessero la parola “impossibile”. E dove trovarle se non tra i giovani e i sognatori, tra coloro che non sono ingabbiati in ruoli troppo fissi?
Il team che si venne a creare era pronto a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi, anche costruire da zero le attrezzature utili. Non erano legati a idee preconfezionate, forse proprio per il loro essere artisti, e come tali ricercavano soluzioni artistiche e inedite ai loro problemi, facendo fiorire il genio che era in loro. Perdevano la cognizione del tempo, finendo per lavorare (divertendosi enormemente) fino a notte fonda. Non era neppure lavoro, per loro. Era passione. E questo è l’ingrediente fondamentale di ogni successo, la conditio sine qua non.
La storia degli operatori di effetti speciali che viene snocciolata all’interno di questo primo episodio, a proposito, restituisce anche il valore del tempo, del saper attendere, della sacra pazienza che richiede lo sviluppo di ogni abilità e la realizzazione di un sogno. Mentre oggi la cultura del tutto-e-subito non ci permette di godere appieno del momento presente e rende l’umanità una schiera di lamentanti immersa in una cacofonia di stimoli nei quali non sa né districarsi né tantomeno emergere. Si è perso il valore dell’attesa, dell’impegno costante, della disciplina, che sono esattamente le qualità che servono per far emergere Anima, che non conosce limiti né tempo.
In conclusione, dunque, il mio articolo vuole essere un semplice invito a non inseguire chimere né a battersi contro i mulini a vento. Anziché perseguire l’ideale di una vita perfetta, dovremmo imparare a vedere la perfezione insita per natura nella nostra, così com’è, qualunque essa sia. Senza girare come criceti impazziti alla ricerca di “qualcosa di più”, perché quel “di più” spesso è già sotto il nostro naso, siamo noi a non volerlo vedere. Non è facile e non sto dicendo di non seguire il fuoco di una vocazione profonda, se la si sente affiorare in sé. Dico di considerare, piuttosto, anche gli apparenti ostacoli che separano dalla propria realizzazione come parti necessarie del viaggio. Persino il modo in cui si attraversano quelle difficoltà è un passo in più verso la propria vocazione, un tassello inestimabile e insostituibile della nostra missione qui, ora.
C’è un motivo che ha caratterizzato la mia scarsa presenza qui dell’ultimo anno.
Un motivo carico di Bellezza e che è giunta l’ora di condividere anche tra queste sacre sponde che ho dovuto lasciare incustodite per lungo tempo (e che mi auguro di tornare a curare presto con la passione che ho sempre nutrito).
Il motivo di cui vi parlerò in questo articolo ha a che fare con la Missione, con il Talento, con il Dono che ognuno/a di noi ha per diritto divino e che è chiamato/a a portare nel mondo, in questo tempo, in questa incarnazione dell’Anima.
Ve la racconterò come una favola, ma favola non è. Mettetevi comodi, dunque.
Un giorno d’estate di diversi anni fa, la mia Anima mi condusse a casa di una Donna che da lì a breve sarebbe diventata la mia Guida. Ogni cosa parlava di magia, intorno a lei. Il candeliere acceso, l’incenso che spandeva la sue volute aromatiche per la stanza, i ninnoli appesi alle tende, i dipinti sui muri… E lei, lì, con quegli occhi indagatori e penetranti che sprizzavano scintille che mai potrei scordare.
Parlammo molto, mentre si portava alle labbra la sigaretta, e mi sorrideva di un sorriso largo quanto il suo cuore. Le spiegai perché ero lì e quel giorno, tra le tante cose che mi disse e che mi cambiarono la vita, ce n’è una che oggi voglio ricordare. Mi disse che è fondamentale conoscersi e che la Magia, quella vera, risiede in noi, non negli oggetti che ci circondano. Un concetto che forse oggi è quasi banale per molti, ma che allora non era così scontato, né divulgato.
Mi affidai a lei, al suo inestimabile Sapere e alla sua energia saturnina così preziosa per un’Anima in cammino come la mia. La incontrai due volte a settimana per tre anni, in quella casa che è stata per me utero materno utile a dar vita a una nuova me. E, insieme alla sottoscritta, a seguire i suoi insegnamenti era anche sua figlia, altra Anima preziosa con la quale ci conosciamo da chissà quante vite (non c’è altro modo per spiegare ciò che ci lega) e che divenne presto come una sorella maggiore per me.
In quei tre anni imparai a lasciar andare tutto il mio sistema di credenze, a lasciar emergere il divino interiore che soffocavo di preoccupazioni, sovrastrutture e maschere. Entrai in un nuovo paradigma di realtà, e iniziai a sentire nel profondo quale fosse lo scopo della mia esistenza. Riconobbi i miei talenti, quelli che affogavo di insicurezze. Li nutrii, mentre abbandonavo e lasciavo morire ciò che di me aveva fatto il suo tempo.
Lavorammo “gomito a gomito” per tre anni, mentre lei non solo insegnava a me, sua figlia e a un nutrito gruppo di individui a vivere con consapevolezza, tramandandoci l’arte dell’Alchimia Interiore, ma designando al contempo me e lei come sue continuatrici, preparandoci a trasmettere a nostra volta i suoi insegnamenti. Il suo sogno era quello di aprire una Scuola Esoterica, una fucina che avrebbe plasmato nuove Anime grazie all’aiuto di diversi insegnanti.
Noi faticammo ad accettare quel ruolo, quell’incarico, poiché allora ci sentivamo inesperte, troppo insicure e di poco valore per poter far parte di un progetto tanto ambizioso ai nostri occhi.
Io e sua figlia ci allontanammo, persino. Quasi inspiegabilmente.
Trascorsero i mesi, mentre entrambe sembravamo sfuggire a una chiamata profonda. Finché una notte d’autunno, senza alcun preavviso né motivo, la nostra Guida lasciò il suo corpo.
Il giorno che seguì la sua scomparsa improvvisa, io e sua figlia, Meg, ci incontrammo dopo molto tempo che non ci vedevamo. Negli occhi gonfi di lacrime dell’una che si riflettevano in quelli dell’altra e tra le labbra rimaste senza parole, avvertimmo all’unisono e profondamente che stavamo vivendo un passaggio di testimone, che la nostra guida ci stava lasciando un’eredità inestimabile e che le nostre Anime ci stessero chiamando a incarnare infine ciò per cui eravamo nate.
Nei giorni a seguire, in silenzio, nacquero due nuove guide e una Scuola Esoterica.
Quella Scuola assunse un nome, MagMel, dall’unione dei nostri due nomi, Magdalena e Melania, ma anche dall’oltremondo celtico, la terra dell’eterna giovinezza che gli antichi conoscevano come MagMell, la Pianura della Gioia.
Ad anni di distanza da quell’evento, io e Meg abbiamo aperto le porte di questa creatura per far sì che, giorno dopo giorno e anno dopo anno, sempre più individui possano conoscerla e approdarvi per vivere un’esistenza più libera e in linea con la propria vera Essenza.
Ecco il motivo che mi tiene lontana da qui, almeno per il momento, e che ha in sé così tanti insegnamenti per me che spesso mi commuove.
Gestire una Scuola non è sempre semplice, per quanto sia un’esperienza bella, che sprona sia me che Meg a lavorare in modo sempre più mirato su noi stesse. Perché anche da guide non smettiamo di imparare, mantenendo il nostro atteggiamento di allieve.
Abbiamo dato vita a un programma triennale che comprende diverse discipline esoteriche, curato i nostri canali di divulgazione, plasmato percorsi collaterali a quello alchemico (vedi “Il Mare Dentro“), e stiamo lavorando anche alla creazione di libri divulgativi e fruibili da tutti.
A proposito, se siete curiosi/e, potete visitarci al sito www.magmel-alchimia.com e seguirci sui nostri profili Facebook e Instagram.
“Come dentro così fuori”, insegnava Ermete Trismegisto, padre dell’esoterismo e dell’Alchimia, e siamo felici che la nostra realtà rispecchi sempre più i nostri intenti e il lavoro fatto su di noi negli anni passati.
Da quest’anno, inoltre, per noi che lavoriamo con energie, frequenze, vibrazioni, è giunta anche l’opportunità di divulgare la nostra Parola attraverso la radio.
Vi racconto questo per dirvi che, quando si vive allineati con il proprio progetto animico, ogni tassello del puzzle assume il suo posto e l’Anima guida il corpo fisico attraverso le esperienze materiali che più le sono utili per sviluppare determinate qualità.
Io non so se sarà il nostro lavoro per tutta la vita. Non so se e quanto resterò in MagMel. Non so se un giorno sarò chiamata a fare altro. Non me lo chiedo nemmeno.
So soltanto che qui, ora, MagMel è il non-luogo più giusto per me per imparare ciò che devo, per continuare a trasmutare me stessa ed evolvere.
Sì, la vita mi ha tolto molto. Mi ha tolto una guida, le sicurezze di cui pensavo di avere bisogno, le amicizie, persino un buon posto di lavoro. Ma in cambio mi ha resa chi sono oggi, restituendomi sette volte tanto ciò che mi era stato sottratto.
Sono stati anni di profonde trasformazioni, e molte cose sono ancora in divenire, poiché il lavoro interiore resta incessante per tutta la durata dell’incarnazione. Ma ciò che mi sento di dire a chi mi segue qui e ai miei allievi, è di non affannarsi a cercare la propria missione, i propri talenti, le proprie qualità e virtù, perché esse sbocciano naturalmente, se si ha il cor-aggio di lavorare su di sé, di scendere nei propri abissi per risorgere infinite volte, se si ha l’intento di illuminare il proprio interno con la Luce della Vera Consapevolezza.
Per dirla alla maniera di Socrate del film “La forza del campione”, bisogna solo buttare la spazzatura. Questo dovrebbe essere il vero obiettivo di chi vuole trovare la propria “missione”, il proprio scopo nel mondo: rendere sempre un po’ più conscio l’inconscio, trasmutare con pazienza e umiltà i propri condizionamenti, i traumi, le memorie auto-limitanti e distruttive, gli schemi mentali… Una volta sciolta quella “patina”, ecco manifestarsi la nostra vera Essenza, pronta a servire il mondo con i suoi talenti unici.
Mi auguro di tornare presto a scrivere in questo contenitore, ma intanto, se sarò di nuovo assente, saprete il perché e dove trovarmi per continuare a seguirmi.
Nel frattempo, auguro a tutti buone trasformazioni, soprattutto per la stagione nella quale ci troviamo.
Mel
Estate.
Da bambina l’amavo smisuratamente.
Era quella stagione in cui potevo finalmente smettere di essere quello che la società voleva che fossi – una scolaretta modello, giudiziosa e posata – e potevo far emergere la mia vera natura: selvatica, libera… silvestre e marina al contempo.
Era l’unico momento dell’anno in cui potevo sguazzare in acqua, fantasticando sulle sirene e il loro mondo subacqueo. Immaginavo di nuotare coi delfini, di poter respirare anche nelle profondità per esplorarle e scoprirne tesori. Mi immergevo, cantando sotto la superficie.
Quando non andavo al mare, scorrazzavo nei boschi alla ricerca delle fate nascoste tra i ghirigori del muschio, portando con me libri che mi aiutassero a identificarle e scovarle nelle loro dimore silvane. Cercavo i selvatici con occhi vispi e curiosi, ansiosa d’imbattermi in loro che, certamente, avrebbero avuto importanti messaggi da consegnarmi.
Fantasticherie di bambina, direte voi. Ma non è esattamente così.
Il periodo dell’infanzia, infatti, cela i segreti della nostra esistenza terrena, quella che possiamo definire come la nostra “Missione”, i nostri talenti, i motivi per cui abbiamo scelto di incarnarci proprio qui, proprio ora.
Scienze umane e filosofie esoteriche sono ormai concordi nell’affermare che il bambino, almeno fino ai primi sette anni di vita, conservi la purezza del suo Sé, per poi dimenticarla e inquinarla mano a mano che cresce, disperdendola nei ruoli sociali, nelle aspettative, nella forma mentis impartita dall’educazione (scolastica, familiare, religiosa, sociale…).
E io, a quel tempo, amavo l’Estate proprio perché mi consentiva di restare in connessione diretta con la parte più autentica di me, senza filtri, senza dover pensare ai compiti, ai doveri, ai voti, a essere una brava e responsabile bambina che nell’invisibilità non creava problemi a nessuno (solo a se stessa, ma questo lo avrei scoperto molto, molto più tardi).
Poi è arrivata l’adolescenza, con la sua mannaia impietosa e le sue furiose tempeste ormonali. E così ho iniziato a dimenticare.
Ho accantonato la vera me, fino a strapparla a brandelli, perché quello che ero non poteva trovare il suo posto nel mondo. Dovevo essere accettata, stimata, adeguarmi e amalgamarmi agli altri per poter sopravvivere. E’ qualcosa che tutti abbiamo fatto e vissuto, per cui sono certa che non starete leggendo nulla di nuovo al vostro cuore.
E così, poco a poco e senza accorgermene, ho reso l’Estate un’acerrima nemica.
La detestavo per il suo rammentarmi troppe cose scomode, per non essermi più fedele alleata come un tempo. Era diventata per me una strega malvagia, pronta a mettermi in difficoltà e a ricordarmi quanto debole fossi.
Il ciclo mestruale m’impediva di vivere il mare. Non potevo più vivere né vestirmi come volevo.
Dovevo nascondere le mie forme “ingombranti” per non essere guardata.
Il mio corpo era messo costantemente a confronto con quello delle mie coetanee o con modelli estetici inarrivabili.
Dovevo imparare a reprimere le parti più belle di me per non essere considerata “strana”, “diversa”, “pazza”… e ricevere così apprezzamento dal mondo esterno. Era pura sopravvivenza.
L’allergia alle punture d’insetto rendeva le serate all’aria aperta un vero incubo.
E il caldo… quello iniziò a rendermi debole e fiacca come mai lo ero stata prima. Mi ridusse col fiato corto e le gambe pesanti da giugno a settembre.
Non sto facendo dell’autocommiserazione. Sto descrivendo come un chirurgo ciò che é accaduto in me, perché so che in molti possono riconoscersi nel mio vissuto. A ben pensarci, ne abbiamo passate davvero tante, da quando siamo venuti al mondo, non ti pare? Quante lotte, quante battaglie… e, nonostante le ferite siamo ancora qui, ancora in piedi. Forse dovremmo ricordarcelo più spesso.
Ma torniamo a noi.
Ho iniziato a patire l’Estate, dunque, a viverla come un assedio infinito e sfinente.
Ero ormai una schiava, una vittima del suo calore insopportabile, di quel fuoco che minacciava di bruciarmi o addirittura uccidermi.
Poi, tre anni fa, la mia vita è cambiata.
E ho compreso come in un’epifania che ciò che di lei non sopportavo dipendeva da me, e non viceversa.
Perché alcune persone accanto a me non solo vivevano benissimo in questa stagione, senza i sintomi fisici che minacciavano me invece, ma addirittura l’amavano? Fortuna? Costituzione? Gusto personale? No, tutt’altro. Si trattava di qualcosa di assai più profondo e intrinseco, ma talmente basilare che sfugge agli occhi dei più.
La verità era che l’Estate, stagione di fuoco, mi mostrava su un piatto d’argento tutto ciò a cui io avevo rinunciato, tutto quello che avevo accantonato e represso, che mal sopportavo.
Il mio fuoco, la mia creazione, erano stati schiacciati per troppo tempo. Lei me lo mostrava come una maestra severa a ogni mio respiro affannoso: non potevo respirare laddove c’era fuoco (caldo) perché questo avrebbe significato dover ammettere di aver tentato di uccidere qualcosa che, da dentro di me, voleva uscire e manifestarsi. Ho scoperto che a detestare il caldo è proprio chi cova rabbia, chi vive di passioni molto intense, chi soffoca parti importanti di sé.
Patire le alte temperature è proprio di chi è logorato dall’insicurezza, di chi è perennemente stressato, di chi giudica molto (in primis se stesso), di chi non mostra mai la propria autenticità, di chi non sa creare nulla e si trincera nel suo guscio privandosi di mettere al mondo la propria bellezza.
E’ stato allora che ho ripreso a ri-cordare, a fare pace con ciò che doveva essere guarito.
Ci sono voluti tre anni di lavoro interiore, un esercizio non ancora concluso del tutto.
Ma ho fatto dell’Estate una Medicina e oggi, anche se ancora non sono tornata a camminare a braccetto con lei, ci sorridiamo come amiche che si ritrovano complici dopo un litigio.
Non la vivo più da vittima. E, strano ma vero, quando va via, a settembre, avverto addirittura quella punta di malinconia che mi è rimasta sconosciuta per molti, lunghi anni.
Non voglio dire che sia semplice né voglio rendere il mio discorso estremamente semplicistico. So bene che l’afa può innescare problemi non indifferenti in alcuni. Ma so anche che interno ed esterno sono compagni inscindibili, facce della stessa medaglia. Dovremmo re-imparare che niente al di fuori di noi può nuocerci davvero, se non gliene diamo motivo (e qui ci sarebbero altre mille parentesi da aprire, lo so). E dovremmo ricordare che modificando – o meglio, trasmutando – una nostra condizione interiore possono migliorare di molto le nostre percezioni, il nostro modo di vivere la vita.
Lavorando su ciò che soffocavo e imparando pian piano a lasciarlo riemergere, il mio odio per l’Estate si placava, lasciando sempre più spazio libero all’amore.
Ho imparato e creare, a donare, a ri-considerare il mio Sé, e così anche l’insofferenza verso il caldo è andata spegnendosi.
Non ti chiedo di credermi, sarebbe da sciocchi. Ma ti invito a provarci. A darti una possibilità, a tentare la via del lavoro interiore prima di annaffiare il tuo stomaco di magnesio, potassio e sali minerali e di impedirti di godere dei grandi benefici dell’Estate (sono tanti, te l’assicuro). Affidati ai rimedi, se patisci. L’ho fatto anche io per tanto tempo. Ma saranno solo palliativi se non ti porrai faccia a faccia col fuoco che hai dentro.
Io ce l’ho fatta e oggi volevo semplicemente portarti il mio esempio, accendere una luce che potesse aiutare anche te a trovare la Medicina di questa potente stagione.
Ti auguro di farlo.
In totale libertà.
[Immagine di copertina: Marvin Rheinheimer da Pixabay ]
“Anima mia… Mi sembra tutto così… Grande! Sei proprio certa di quello che hai scelto per me?”
“Non potrei esserlo di più.”
“Non so se ce la faccio… Mi sento tanto piccola in confronto a tutto quello che vedo intorno a me.”
“Se sei qui, ora, significa che hai un ruolo importante da svolgere in tutto questo. Vedi grande e insormontabile ciò che ti addolora perché non consideri una cosa fondamentale.”
“E sarebbe?”
“La tua stessa grandezza. Ciò che hai intorno e a cui attribuisci la causa del tuo malessere non è neanche paragonabile alla grandezza che sei. Io sono te. E io posso tutto, lo sai. Vivi sotto l’effetto oppiaceo della materia. Ma se apri gli occhi puoi vedere la perfezione di questo grande, enorme riflesso che rispecchia ciò che sei. Lo vedi? Riesci a farlo, questo?”
“Sì. Sì! Lo vedo, ora.”
“Bene. Vedi e senti fino a che punto arriva la tua creazione?”
“Caspita, sì!”
“E allora sei altrettanto grande per ribaltare questa visione, scardinarla, trasmutarla. Crea la tua realtà. A tua immagine e somiglianza. Con libertà e centratura, con la sicurezza del Guerriero Spirituale.”
“Ecco, c’è un’altra cosa, Anima mia. Mi spaventa, tutto questo. Mi fa paura accettare di essere grande. Perché significa dover attraversare altrettanto grandi tempeste, proporzionate a ciò che sono. A volte è più comodo sentirsi in balia degli eventi, avere qualcuno su cui scaricare responsabilità.”
“È quello che accade alle Anime bambine. Ma io sono un’Anima adulta, ormai, e tu con me. Non ti chiedo di non aver paura. Provala, non reprimerla, sperimentala. Ma fa’ che diventi stimolo per il tuo cor-aggio. Non esserne serva, siine padrona. Non soccombere ai tuoi demoni. Ormai sei consapevole di ciò che si trova al di là della soglia a cui essi fanno la guardia: una Bellezza e una Libertà senza eguali. Per te e per tutti gli altri Esseri.”
“Non vi rinuncerò. Affronterò tutto questo.”
“Oh, lo so bene. Lo stai già facendo. E, mentre lo fai, per un attimo smetti di essere Quercia e trasformati in Giunco. Flessibile, ondeggiante e difficile da spezzare, capace di crescere anche nelle paludi.”
“Sia fatta la tua volontà, allora. Così è.”
Ho scritto di mio pugno questo Dialogo con l’Anima in risposta agli eventi che si stanno succedendo e che vedono molti/e interrogarsi profondamente. Per chi ha occhi per vedere, sarà facile comprendere e intuire quanto quello che ho riportato poco sopra non sia un semplice racconto di fantasia.
Siamo esseri divini, ma troppo spesso lo dimentichiamo. E lo dimentichiamo soprattutto in situazioni che reputiamo insormontabili, difficili da gestire o da affrontare.
Viviamo attualmente in una condizione di emergenza. Lasciando da parte le definizioni sul piano materiale e i risvolti politico-sociali di questo termine, la parola stessa implica qualcosa che emerge, che viene a galla, in superficie.
E ciò che emerge è per molti/e insostenibile, troppo grande, troppo pesante da fronteggiare.
Fa paura tutto questo male. Fa paura percepirlo come uno tsunami inarrestabile. Spaventa vedere l’odio, il rancore, il giudizio, la violenza di cui l’essere umano si macchia, così come si inorridisce davanti alla corruzione, a chi è privo di scrupoli, alla meschinità.
Le verità che salgono a galla dai flutti dell’inconsapevolezza feriscono gli occhi e i cuori di molti/e. Sembra di affogarvi, nessun luogo appare più sicuro e incontaminato dalle nefandezze del mondo umano. Lo so bene.
Ma so anche che non è questa la prospettiva più utile da cui osservare le cose. Il male, l’odio, il rancore, il giudizio, le ingiustizie, l’arrivismo, la corruzione, la meschinità… Sono presenti da sempre, ma prima erano nascosti, celati e subdoli. Ora, invece, sono sfacciati, giocano a viso scoperto, e possiamo finalmente vederli per quello che sono. A livello collettivo.
Non è forse più pericoloso l’invisibile? Non è forse più dannoso ciò che si insinua non visto e che opera in tal modo indisturbato? La realtà, anche se si fatica a vederla e accettarla, è che guardare negli occhi ciò che prima era semplice sospetto è un potere, una forza, un’arma.
Il boccone più amaro da mandare giù è che nella misura in cui tutto questo ci scuote e ci colpisce, con la stessa intensità ci appartiene. E siamo chiamati/e a ri-conoscerlo. A vederlo. E ad accoglierlo per trasmutarlo.
Cosa intendo dire con questo?
A ognuno/a l’attuale situazione sociale e/o politica sta stretta per motivi differenti. Pur vivendo nella stessa società e con le stesse regole, ogni persona re-agisce a tale situazione in modi diversi. Qualcuno sente rabbia, qualcun altro prova il senso dell’ingiustizia o della coercizione o ancora della schiavitù. C’è chi si sente discriminato, chi ha paura, chi si sente limitato, chi prova frustrazione, chi odio… e potrei andare avanti così all’infinito. Nell’atmosfera aleggia una vasta gamma di emozioni che ognuno/a imputa a una causa esterna.
“Ho paura di chi non rispetta le regole“
“Sono arrabbiato/a con lo Stato, con il Sistema, con il governo ladro!”
“Non parlo più al mio vicino di casa perché non la pensa come me.”
“Mi stanno togliendo tute le libertà!”
“Voglio una vita normale ma per colpa di X/Y/Z non ce l’ho più.”
Più delegheremo a qualcosa di esterno ciò che non approviamo, maggiore distanza frapporremo con ciò che siamo realmente.
Perché, in verità, siamo colpiti/e proprio nella sfera che più serve per la nostra evoluzione.
Hai paura del prossimo? Impara ad amarlo di un Amore che non ha nulla di terreno e della dipendenza di cui lo macchiamo. E, soprattutto, ama te stesso/a prima di ogni altra cosa.
Temi, giudichi, condanni la trasgressione? Allora chiediti in quale sfera della tua vita sei trasgressore tu stesso e quale emozione muova il tuo essere trasgressivo.
Ti senti derubato/a di qualcosa, schiavo/a, non libero? Forse non ti rendi conto di esserlo ogni giorno della tua vita e in ogni ambito. Se vuoi essere libero/a, liberati! Liberati dai tuoi schemi mentali, dal giogo dei pensieri e dei limiti che ti auto-imponi. Liberati dal senso della sconfitta e del dovere, da tutte quelle catene che t’impediscono di essere sveglio/a a te stesso/a.
Qualsiasi sia la situazione in cui ti trovi e il modo in cui la stai attraversando, fermati e inizia a considerare le cose con una percezione differente. In fondo, stiamo sperimentando cose del tutto nuove, che mai avremmo immaginato di vivere sulla nostra pelle… Allora forse è il caso di rendere nuovo anche il nostro punto di vista e il nostro modo di affrontare la vita. Il modo in cui abbiamo vissuto fino ad ora si è mai rivelato funzionale? Credo che la risposta a questa domanda sia “no”. E, dunque, tanto vale tentare.
Un giorno il diavolo mi sussurrò all’orecchio: “Tu non sei abbastanza forte da affrontare la tempesta”.
Oggi ho sussurrato all’orecchio del diavolo: “Io sono la tempesta”.
~ Anonimo ~
© Testo Melania D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com
Immagine di copertina: autore sconosciuto (nel caso lo conosciate, segnalatemelo. Sarò felice di aggiungere i credits).
Ho affermato spesso, tra queste pagine virtuali, di quanto la vita sia un’insegnante preziosa e della validità della sua Scuola. Ho ricevuto più insegnamenti alchemici da lei che da qualsiasi altra guida (sebbene io ne abbia avute di molto valide), e oggi vorrei scendere più in profondità in questo argomento. Lo faccio riportando un episodio vissuto, un’esperienza reale, che potrebbe capitare o essere capitato a chiunque.
Mi trovo in uno stabilimento balneare in cui è stata predisposta un’area pic-nic libera. Io e mio marito prendiamo posto, è l’ora di pranzo, ma ad occupare i pochi tavolini sotto la pergola ci siamo solo io, lui e un’altra coppia.
All’improvviso il cielo si fa cupo e ben presto cominciano a scendere dal cielo le prime gocce di pioggia. In men che non si dica, dalla spiaggia sono in diversi a riversarsi nell’area libera per trovare riparo e i posti ai tavoli vengono occupati tutti. Io e mio marito concludiamo il nostro pranzo al sacco e poi ci viene voglia di un buon caffé per concludere il pasto. Lo stabilimento in questione aveva un ampio spazio coperto con tavolini, questi disponibili solo per i clienti del bar o della spiaggia attrezzata. Decidiamo allora di spostarci sotto la tettoia del locale per essere più riparati e usufruire anche dei servizi igienici. Tuttavia c’era molta gente anche lì…
Mio marito, allora, si alza e va in avanscoperta alla ricerca di un tavolino e io resto seduta per non perdere il posto a sedere, nel caso in cui lui non lo avesse trovato.
E a questo punto accade qualcosa di esilarante.
Io lo seguo con lo sguardo, attendendo un suo cenno qualsiasi e pronta ad alzarmi per raggiungerlo. Mano a mano che lui si allontana da me e si muove all’interno del locale, però, nel mio campo visivo la sua collocazione va a coincidere con quella di un’altra coppia che ho di fronte, a un paio di metri da me.
Mio marito, dunque, è sullo sfondo, mentre l’altra coppia mi sta davanti. Sono nella stessa posizione nel mio campo visivo, ma su due piani prospettici differenti.
Il punto è che il ragazzo della coppia che ho dinnanzi si sta cambiando… è in boxer e sembra proprio che io lo stia osservando molto bene, con interesse… quando invece sto guardando mio marito dietro di lui!
Con la coda dell’occhio vedo la sua ragazza guardarmi con un’espressione poco rassicurante in volto, di pura gelosia.
E, in tutto questo, nessuno dei due ha compreso la realtà delle cose.
Al cenno di mio marito, mi alzo lasciando libero il posto che occupavamo, ma, mentre cammino verso il nuovo tavolo in cui lui mi aspetta, rifletto molto sull’accaduto.
Perché é così che accade: basta un nonnulla per accendere una scintilla, aprire una porta…
E allora mi sono detta: che cosa bizzarra! Quella ragazza aveva evidentemente bisogno di provare la gelosia dentro di sé, di sperimentare i morsi dell’attaccamento, la rabbia, o qualsiasi altra emozione l’abbia attraversata in quegli istanti. L’apparente causa del suo malessere (che le si leggeva in viso) sono stata io… Io che, per uno scherzo di prospettiva, in realtà guardavo e seguivo con attenzione mio marito, ma sembrava che fossi molto interessata ai gioielli del fidanzato della ragazza.
Per un curioso equivoco, dentro quella ragazza si sono messe in moto delle reazioni fisiche provocate dal tornado emotivo che l’ha investita. Le emozioni recano sempre con sé delle reazioni chimiche all’interno dell’organismo, ce ne possiamo accorgere semplicemente ascoltando il nostro corpo ogni qual volta si presentino la rabbia, l’euforia, la tristezza… esse sollecitano parti specifiche del corpo e tali sollecitazioni possono protrarsi anche per giorni.
Pensate un po’. Tutto questo caos si è riversato sul fisico di questa ragazza. Per un equivoco. Per un evento del tutto inesistente, irreale, menzognero!
E questo accade di continuo nella vita di chiunque, perché in fin dei conti non vediamo mai la realtà per come essa è davvero. La percepiamo attraverso il filtro della nostra personalità, che è del tutto soggettiva.
Ma il mio ruolo, in tutto questo, qual è stato?
Per rispondere a questa domanda, devo necessariamente fare un passo indietro.
Ognuno di noi è qui per Essere. Essere significa sì esistere, vivere, ma questo comporta qualcosa che raramente consideriamo, e cioè il manifestare quello che siamo (corpo, emozioni, mente, spirito) ed essere al contempo dei mezzi attraverso cui gli altri possano imparare a ri-conoscersi. Detto con un linguaggio caro alle scuole iniziatiche antiche: ognuno di noi è al contempo allievo e maestro per l’altro. E’ un ruolo dal quale non possiamo sottrarci. Sarebbe come se una pianta si rifiutasse di fiorire o dare frutto, il che la condurrebbe a morte certa entro un determinato periodo di tempo.
A tal proposito, sono considerati maestri: il genitore che ci abbandona, il partner che ci tradisce, il vicino di casa rumoroso e fastidioso, il collega invidioso e malevolo, il datore di lavoro irrispettoso…
Mi rendo conto che il discorso in questione sia troppo complesso e sfaccettato per poter essere sviscerato esaustivamente in questo articolo, ma il punto è – per rispondere alla domanda di qualche riga sopra – che io sono stata maestra per quella ragazza (così come lei lo è stata per me). E non mi sono potuta esimere da quel compito, perché, attraverso di me, lei ha sperimentato una serie di emozioni (=demoni interiori) importanti, che le serviva provare e ri-conoscere, osservare.
Ci sono diverse occasioni nella vita in cui è possibile accorgersi in modo lampante del nostro ruolo di maestri/e. Uno di questi è quello che vi ho raccontato, ma capita di continuo nell’arco delle nostre giornate.
Per esempio: quante volte, mentre siete alla guida, un pedone decide di attraversare la strada? A qualcuno sorridete, ad altri no. Perché decidete di donare un sorriso a uno sconosciuto? In base a cosa, invece, ignorate il passante o, addirittura, lo guardate in cagnesco? Non c’è sempre una spiegazione logica, razionale e/o materiale. Non sempre potete rispondere: “perché ha un viso simpatico” o “perché si è buttato in mezzo alla strada, quello str***o!”. Fateci caso.
E’ l’energia, sono le vibrazioni di quella data persona a risvegliare in noi reazioni energetico-vibrazionali della stessa frequenza. Ci sarà chi avrà bisogno di un nostro sorriso, chi, invece, di uno sguardo in tralice.
Ed ecco che, allora, diviene inutile nascondersi, come fanno molti. Ci sono persone che, per timore di essere quello che sono davvero, indossano maschere di “carineria” e gentilezza, pur di non offendere l’altro/a. Quando l’altro/a, in realtà, avrebbe tanto bisogno di un nostro gesto/tono brusco, di una smorfia.
Per cosa? Per ri-conoscersi, rispecchiarsi nell’altro/a, risvegliarsi dal torpore dei sensi, vedere oltre l’illusione, squarciare quello che gli antichi chiamavano Velo di Maya.
Le emozioni e gli eventi che viviamo sulla nostra pelle servono affinché prendiamo coscienza del nostro totale e cieco asservimento a quello che è il nostro corpo, della nostra carenza di volontà, del nostro non essere identificati con l’Anima che siamo (non che abbiamo!). Non che sia un male essere immersi nel corpo, dopotutto è la nostra materia, la casa in cui abitiamo, ma non siamo solo questo. Abbiamo una parte spirituale che non consideriamo, un potenziale che resta per lo più del tutto inespresso.
Per concludere, dunque, non siamo qui per essere umanamente perfetti, ma rispecchiare l’universale perfezione che si avvale anche di apparenti controsensi. Siamo qui per Dare, Servire. Dare ciò che siamo, nel bene e nel male, così come la Natura dà fiori e frutti, ma anche muffe e parassiti. Servire tramite la nostra energia, le vibrazioni che ci portiamo dentro, positive o negative che siano. Non siamo qui per essere sterili e asettici. Ci serve inciampare, esultare, discutere, amarci, confrontarci, gioire… Ma la verità è che questo Essere serve anche agli altri, non solo a noi stessi.
E allora basta trattenersi. Basta fingere ciò che non siamo. Basta adeguarci a chi abbiamo accanto o di fronte “per paura di…”. Basta impedirci di mostrare il nostro volto privo di filtri: lasciamo che le emozioni lo attraversino. Nel bene e nel male. Siamo qui per questo. E (forse) non abbiamo idea di quanto il nostro riflesso serva al mondo. Perché siamo nati per essere Maestri, nessuno escluso. Non possiamo esserlo trincerandoci, ma solo schiudendoci, aprendoci. E ancora non sappiamo quanti fiori e riflessi arricchiranno la nostra e l’altrui vita percorrendo questa via.
Siamo qui per questo: Essere.
“L’uomo che fa molto, sbaglia molto.
L’uomo che fa poco, sbaglia poco.
L’uomo che non fa niente non sbaglia mai. Ma non è un uomo.”
~ Confucio ~
Melania D’Alessandro per spondediboscomadre.com
È fine estate e i torrenti di montagna sono in secca. Al loro posto, acquitrini in miniatura, pullulanti di vita.
Una vita che resiste all’aridità e si aggrappa a quegli specchi di brodo primordiale.
Sotto la superficie nuotano piccoli di Salamandra. E girini. Tanti girini.
Amo i riflessi delle fronde più alte in questi stagni, mi piace perdermi e ritrovarmi in essi, viaggiare tra quegli strati sovrapposti.
Nell’esplorarli ripenso spesso alle Dame guardiane delle Acque che popolano da sempre l’immaginario umano, ai draghi di sorgente, simboli della conoscenza che il lago, il ruscello, la palude e lo stagno possono offrire agli intrepidi che sanno avventurarsi nell’Oltre.
Mentre sono lì, rapita, un momento vedo le foglie sui rami, poi l’occhio mette a fuoco le profondità, con le sue pietre verdognole e i fondali melmosi. È così che sopra e sotto, dentro e fuori si mescolano e si rincorrono. Non si capisce più cosa sia un riflesso e cosa no. Ecco che allora in una polla si racchiude la metafora dell’esistenza, a più livelli.
Coesistono insieme dimensioni diverse, l’una non meno reale dell’altra: siamo noi a scegliere cosa guardare.
Le fronde e il cielo riflessi?
I sassi?
L’acqua?
Le Salamandre?
E quante dimensioni dell’esistenza può catturare uno scatto?
Quanti strati di vita si sovrappongono e si compenetrano?
E quanti ne contiamo?
Se guardi nelle dimensione sotto il pelo dell’acqua, le Salamandre ti parlano di resistenza al male, alle difficoltà, a ciò che è avverso. E di costanza, di valore nella lotta, di virtù. Parafrasando l’alchimista persiano Geber, questo anfibio è ciò che vince il fuoco e non ne è vinto. È colui/colei che nel fuoco resta in amicizia, dilettandosi con esso. Che insegnamento! Restare nel fuoco senza scottarsi, ma danzare con esso, giungere persino a divertirsi… Un messaggio che oggi fatichiamo a osservare e a fare nostro, tuttavia i tempi ci richiedono di assimilarlo e incarnarlo.
Ma procediamo in questo viaggio.
Tra le code dei girini troverai trasformazione, zampe che si preparano al salto, la Vita al suo stadio embrionale, fertilità e fermento. Ma l’anfibio è fatto per uscire dalle acque dell’inconscio… Ti racconta il suo emergere a nuovi stati di coscienza, il sublimarsi. E poi camminare, balzare, percepire il mondo con sensi nuovi.
È ciò che siamo chiamati/e a fare, è il compito che, prima o poi, attende tutti e tutte noi.
Sguazzare nell’acqua – nell’inconscio e nell’inconsapevolezza – è comodo e apparentemente sicuro. Ci vuole coraggio a uscire da quello stato, dalla melma che si è sempre conosciuta. Sembra che non ci sia niente al di fuori di essa…
Eppure, c’è chi si avventura al di là, chi vuole esplorare nuove condizioni. E allora mette la testa fuori dal liquido e comincia a scorgere un mondo nuovo, poi vi cammina, immerso in una realtà più leggera, fatta d’aria, e con la concretezza della terra.
Ma c’è di più! Come nello stagno si trovano rane a differenti stadi di sviluppo, così anche noi abbiamo una strada da percorrere, una crescita alla quale non possiamo sottrarci. Ed è una via diversa per ognuno/a, non esiste giusto e sbagliato. Ci sono girini che necessitano del loro tempo biologico prima di sperimentare le zampe e far cadere la coda. E con loro coesistono girini che hanno sia coda che zampe, ma anche rane ormai adulte, completamente formate.
Allo stesso modo, anche nella nostra realtà umana ci sono Anime che hanno bisogno del loro momento per mettere il naso fuori dall’acqua ed emergere. E con esse coesistono Anime che da quello stadio sono già passate e hanno varcato le soglie di nuove dimensioni.
Ha forse un senso giudicare tutto questo? In quest’ottica, esistono il giusto e sbagliato?
Al di là della pelle limacciosa della rana, molto più su, i tronchi degli alberi raccontano di un mondo in cui si svetta verso l’alto, del protendersi, del respirare.
Ci sono animali che distruggono il vecchio e disgregano materia. E ci sono esseri che vivono in mondi liminali che in quella putrefazione si adoperano a decomporre per fare spazio al nuovo che verrà.
Ognuno col suo ruolo.
Ogni creatura libera dal giudizio del bene e del male.
Tutti hanno il proprio compito e trovano il loro posto in un mondo che ha spazio e accoglienza in sovrappiù.
Senza chiedersi perché.
Senza lambiccarsi su cosa sia giusto o sbagliato.
Tutto, semplicemente, È.
E io che osservo, dove mi colloco? Dove sono, dentro, fuori, nel mezzo…?
Posso essere l’osservatore così come l’oggetto osservato. Attrice, spettatrice e sceneggiatrice al contempo. Una e multiforme. La parte e il Tutto. Il micro e il macromondo. Il sopra e il sotto. Il dentro e il fuori.
“Troverai più nei boschi che nei libri”, scriveva Bernardo di Chiaravalle.
Ed è davvero lì, sotto rami antichi e tra steli d’erba giovane, nel guizzare della vita che incrina riflessi sull’acqua e increspa superfici, che si tiene la scuola con le lezioni esoteriche più strabilianti di sempre.
Io non me ne perdo una.
© Melania D’Alessando per http://www.spondediboscomadre.com
La Leggenda
Su, sulle Alpi, incastonato nel massiccio del Monte Bianco, un tempo esisteva un avvallamento rigoglioso color verde smeraldo, brulicante di fiori e animali. Era un vero paradiso in terra, un luogo ameno tanto bello da non poter essere afferrato dall’immaginazione umana.
Qui c’era un lago nel quale il cielo amava specchiarsi e le sue rive erano animate dai piedi delle fate, che ne avevano fatto il luogo prediletto per danzare e organizzare grandi feste, ma soprattutto per cantare. Un giorno, tuttavia, le loro melodiose voci ridestarono dal sonno i demoni che abitavano sul Mont Maudit. Erano affascinati da quel canto, tanto da proporre un’unione alle fate, ma queste giudicarono talmente orribile l’aspetto dei demoni che fuggirono, spaventate.
Da allora, adirati, insoddisfatti e implacabili, i demoni scuotono le montagne che circondano il lago facendo precipitare pietre grigie tutt’intorno. Il luogo non è quasi più verde, ma colore del piombo, tranne quando i demoni stendono sul luogo un’austera coltre di inclemente e gelido ghiaccio.
Il Lago del Miage è uno dei luoghi più incantevoli che io abbia mai visitato. E conoscerne la leggenda che vi aleggia mi ha consentito di visitarlo con uno sguardo volto al magico e all’esoterico.
Una storia può essere solo raccontata e ascoltata. Oppure può essere interiorizzata, ri-membrata. Come accade per ogni mito che si rispetti, anche in questa fiaba di demoni e fate scorgo un significato alchemico, più profondo della sola superficie. Andiamo a conoscerlo insieme.
La nostra vera essenza
Come ho già avuto modo di raccontare in altri articoli di questo blog – per esempio in “La Valle Argentina e le sue grotte: oltre il velo della leggenda tra la vita e la morte” – le fate sono forse tra le creature della mitologia e del folklore che più ci connettono a quel mondo altro, a quella dimensione arcaica cui tutti/e apparteniamo.
Storie che le riguardano pullulano le zone di tutto il globo terracqueo, e spesso rappresentano i molteplici aspetti della natura più selvaggia e autentica. La stessa di cui facciamo parte anche noi, sebbene tanto spesso lo dimentichiamo.
Nel caso della leggenda sopra riportata, le fate si fanno portavoce di uno stato primordiale che non ri-membriamo più (al quale, cioè, non diamo più corpo, forma): la nostra vera essenza, quella più autentica che ben si sposa con la dimensione dell’età infantile di purezza e genuinità. Cantano, danzano, celebrano la vita e sono circondate da quella bellezza che solo i bambini riescono a scorgere in ogni piega della realtà.
Il canto e la danza, d’altronde, sono forti espressioni e manifestazioni di uno spirito libero, scevro da giudizi e condizionamenti, proprio come eravamo da piccoli/e. Non solo: rappresentano simbolicamente il suono e il movimento, due elementi senza i quali la vita non può esistere.
Nell’infanzia, soprattutto nei primissimi anni di vita, esprimiamo ciò che siamo veramente, la nostra natura priva di condizionamenti, l’indole intrinseca che ci portiamo dietro dalla dimensione spirituale in cui abitavamo prima di discendere nella materia. E’ un’essenza che tiriamo fuori costantemente, almeno finché essa non viene minata e temprata dall’educazione che riceviamo.
La rottura di un equilibrio perfetto
A questo punto, nella storia fanno il loro ingresso i demoni. Connessi alle pietre e al ghiaccio, hanno un aspetto spaventoso, così tanto da mettere in fuga le fate.
La parola demone è di derivazione greca: il daimon è letteralmente un “essere divino” che si pone a metà tra Spirito e Materia, tra Divino e Umano. In questa figura sono confluite tutte le paure, i traumi, le emozioni disturbanti dell’umanità… ma allora perché è definito “essere divino”?
Il demone è il nostro guardiano di soglia, personaggio iniziatico pronto a sacrificarsi per condurci a ciò che siamo davvero. Incarna il cosiddetto lato ombra, ci mette alla prova ponendoci davanti a ciò che ci separa dalla nostra realizzazione. Ecco dove risiede la sua divinità: nel farsi intermediario tra ciò che siamo nel corpo e ciò che possiamo essere nello Spirito.
Per l’Alchimia il demone è un agglomerato di emozioni, traumi, convinzioni, limiti… un essere che noi stessi/e abbiamo creato per sopravvivere in un mondo che non ci ha accettati/e per quelli/e che siamo. Ci siamo dovuti/e trasformare, adattare, adeguare a un vestito che non era il nostro e nascondere la nostra autenticità, la missione, i talenti che costituiscono il bagaglio della nostra Anima per questa vita.
Accade, dunque, che le fate della storia vedano questi esseri demoniaci. E, nel vederli, li giudichino. Un giudizio, il loro, del tutto negativo, che le spinge ad abbandonare un luogo che ritenevano importante, bello, ricco di vita… Tutto per un giudizio. Per una paura. Per un fastidio. Per un rifiuto.
Non è forse la stessa cosa che accade anche a noi, a un certo punto della nostra vita?
A causa di un giudizio, una paura, un fastidio, un rifiuto, finiamo per abbandonare gradualmente ciò che siamo davvero, adeguandoci a una realtà che ci calza stretta, che ci opprime e che ci allontana con drasticità da ciò che siamo nati per essere.
Soccombere ai propri demoni… o forse no
Nella storia, le fate sono così disgustate e terrorizzare dai demoni che fuggono, abbandonando il lago. Ciò fa infuriare questi ultimi, tanto che ancora oggi scaraventerebbero giù dalle montagne cumuli di pietre e massi, rendendo il lago il luogo inospitale e aspro che è diventato.
In Alchimia si usa una metafora che si sposa molto bene con questa storia. I demoni interiori – che abbiamo detto essere un insieme di emozioni, traumi, convinzioni, limiti, preconcetti – sono paragonabili a delle pietre che, anno dopo anno, vanno a riempire il nostro mare interiore, altrimenti limpido, soffocandolo e saturandolo. Il lavoro alchemico non fa che disintegrare quei massi e trasmutarli in materia utile all’individuo sul piano spirituale.
Il Lago del Miage, guarda “caso” (ovviamente al caso non credo), ha la forma di un cuore colore del cielo. Un cuore che, nel linguaggio simbolico, rappresenta l’amore, la forza motrice della vita e che ha la tinta che attribuiamo al regno spirituale. Un cuore affogato di pietre.
Le stesse pietre che ogni giorno anche noi riversiamo su ciò che siamo davvero, nascondendoci, impedendoci di manifestare l’amore per noi e per il Tutto, obbligandoci a non promuovere la vita e a ignorare il regno dello Spirito. Proprio come hanno fatto le fate, mitiche responsabili dello sfacelo cui sta andando incontro il laghetto di montagna.
Quanti pesi abbiamo sul cuore… non è così? Quanto di noi soffochiamo, e quanto rifiutiamo…
Quante volte, di fronte a una nostra reazione, davanti all’emergere delle nostre ombre, inorridiamo, scappiamo?
La storia alpina del Lago del Miage non ha un lieto fine, ma possiamo scegliere di ridipingerlo per la nostra vita. Come?
Scegliendo di non inorridire al cospetto dei nostri demoni interiori. Decidendo deliberatamente di ballarci insieme, di guardarli negli occhi affrontandoli.
Solo così i nostri mondi interiori smetteranno di essere pietraie plumbee e accidentate. Diverranno allora luoghi ameni, dove vita e morte intoneranno insieme la canzone dell’Esistenza.
Copyright testo: Melania D’Alessandro per spondediboscomadre.com