Sulle Sponde di Boscomadre

Rispettare le ombre del bosco

Quando desideri entrare a casa di un conoscente, che sia un parente o un amico, bussi alla porta, suoni il citofono o il campanello. E immagino che tu ti assicuri che la tua visita sia cosa gradita e non improvvisa, magari fai una telefonata per avvisare del tuo arrivo… Questo accade perché hai rispetto degli spazi altrui, ne riconosci i confini e non li valichi senza il permesso di chi li abita.

Perché, dunque, dovrebbe essere diverso con un bosco o un luogo naturale?

Anche quegli ambienti posseggono confini, regole, limiti e padroni di casa, anche se non sono come li concepirebbe la nostra umana mentalità. Boschi, radure, montagne, praterie hanno una loro logica che sfugge alle nostre menti razionali, ma questo non ci giustifica a non rispettarla.

Ci sono luoghi che non vogliono essere visitati, che non amano presenze esterne. Esistono pieghe della natura che si richiudono in se stesse perché hanno bisogno di ricucire ferite invisibili, di guarire energie sottili che noi avvertiamo solo in rari casi… Eppure ci arroghiamo spesso il diritto di volere e potere arrivare ovunque, anche dove non saremmo ben accetti.

E’ possibile riconoscere questi tratti di foresta o di natura, anche se servono occhi attenti e cuore aperto. Ma, prima di dirti come fare, ti racconto due aneddoti in cui potresti ritrovarti; potrebbe essere capitato anche a te di vivere esperienze simili alle mie, ma forse non vi avevi mai prestato attenzione prima. Sono qui anche per questo: per farti vedere ciò che prima era invisibile, celato sotto la coltre dell’inconsapevolezza.

Grovigli e temporali

Tempo fa lavoravo a un altro blog con una carissima amica. Avevamo scritto un articolo su un tratto di bosco molto particolare, sul quale aleggiano leggende da brivido e superstizioni niente male. Si tratta di un luogo incastonato in un vallone, cupo, tetro, aggrovigliato, dove anche certi animali faticherebbero a entrare. Si vocifera che lì, secoli fa, siano accaduti eventi di grande violenza, qualcuno dice sia abitato da spiriti poco amichevoli, altri giurano di aver visto delle luci salire da quegli alberi in certe notti… Be’, necessitavamo di qualche foto di quel nugolo di rami, e così mi recai sul posto con la reflex. Allora non conoscevo tutte le dicerie che si raccontavano al riguardo e non avevo ancora maturato la sensibilità che ho acquisito col tempo, ero una semplice visitatrice desiderosa di trarre qualche scatto a uno scampolo di mondo che mi incuriosiva, carico di mistero, come piace a me.

Ebbene, la sensazione, scesa dall’auto, era quella di avere mille occhi puntati contro, e giuro che la mia non fosse suggestione. Nel folto degli alberi non si poteva entrare, la vegetazione era troppo fitta, troppo intricata. E allora ho goduto del tutto dalla striscia di nero asfalto che vi correva nel mezzo, scattando qualche foto di tanto in tanto.

Era una calda giornata di agosto, non limpida, ma non minacciava di certo pioggia. Dopo circa dieci minuti dal mio arrivo, si è scatenato un temporale piuttosto violento, con grandine e tuoni minacciosi. Il cambiamento del meteo è stato così improvviso e repentino che mi sarei infradiciata, se non mi fossi rifugiata in una galleria. All’entrata e all’uscita del mio riparo scorrevano due cascate d’acqua e soffiava un’aria fredda, ben poco accogliente.

Lasciai spiovere e me ne tornai in auto con ben poche foto nella reflex, ma con un’inequivocabile certezza nel cuore: quel luogo non voleva essere disturbato e io avevo recepito il messaggio.

Strani rumori

La scorsa estate mi sono decisa a visitare un luogo sacro immerso nella macchia. Si trattava di un posto suggestivo, da quel che avevo sentito dire, intriso di tradizioni e storia. Ancora una volta, presi l’auto e mi misi in marcia. Arrivata a un certo punto, però, trovai una grossa frana che mi impediva di proseguire su quattro ruote, ma non a piedi… così abbandonai la macchina sullo sterrato e proseguii con le mie gambe. La strada per giungere all’antico luogo di culto era ancora lunga e a ogni curva incontravo frane, alberi crollati, detriti… e ogni volta li scavalcavo e proseguivo.

Arrivare sembrava diventata un’impresa impossibile, ma alla fine riuscii. Ricordo ancora la sensazione sgradevole e inspiegabile che provai. Eppure il luogo era descritto come ameno e pacifico, non mi sarei certo aspettata una simile accoglienza.

Anche in questo caso, mi sentii osservata. Visitai il luogo di preghiera con una sensazione di urgenza nel petto, aumentata da strani ticchettii concitati che udivo nelle vicinanze, anche se non riuscivo a identificarne la fonte. Ogni volta che mi voltavo per capire cosa li provocasse, il ticchettio si interrompeva, per poi incalzare di nuovo e sempre di più. Ancora oggi non so cosa fosse, non dico sia stato qualcosa di soprannaturale, ma di certo so che l’energia del luogo non fosse amichevole. Me ne andai, ma le sensazioni che avevo provato restarono con me ancora per un po’.

Tiriamo le somme

Con queste mie parole ed esperienze non voglio farti credere che io sia superstiziosa o credulona. Ma ho sperimentato sulla mia pelle una cosa che ognuno di noi può aver avvertito almeno una volta nella vita, senza darle alcun peso: l’energia dei luoghi.

E, dunque, tornando all’argomento iniziale di questo mio articolo, mi sono chiesta perché non ascoltiamo quel nostro prezioso sesto senso, quando si accende in noi. Lo minimizziamo, scambiandolo per paranoia, quando in verità gli dovremmo molto, perché ci riconnette alla nostra natura selvatica, quella che abbiamo ereditato dal nostro essere animali. E’ un fiuto infallibile, che non ci abbandona e attende solo di essere risvegliato, nutrito e assecondato.

Oltre all’intuito, però, ci sono altri modi per capire in anticipo se un bosco o un luogo naturale non desiderino la nostra presenza. Nel caso delle esperienze personali che vi ho riportato, l’intrico impenetrabile di rami, le frane, gli alberi crollati, i detriti e il tempo atmosferico sono stati dei chiari sintomi di un luogo che non voleva contaminazioni.

Osservare le forme di ciò che ci circonda, quando siamo in natura, è utile a riconoscere e rispettare le energie che la abitano. Alberi che creano fitte giungle, per esempio, non possono essere un chiaro sintomo di apertura… Piante ritorte su loro stesse o persino dall’aspetto sgradevole possono fungere da veri guardiani del bosco e paiono volerci allontanare da un angolo che non ha bisogno della nostra energia, non la vuole, la respinge. Una volta, in una delle tante passeggiate, mi sono imbattuta in un tratto di foresta in cui gli alberi erano bassi e con i rami sviluppati in orizzontale in modo esagerato. Erano spogli, pur essendo luglio, e parevano guerrieri che impugnavano delle lance, tenendole dritte davanti a loro in posizione di attacco. Cosa trasmetteva quel tratto di foresta? Il desiderio di non essere disturbato, e io lo rispettai.

Non è fantasia né fervida immaginazione, la mia, ma allenamento all’osservazione di un ambiente in cui so di essere visitatrice, non padrona di casa.

Per questo motivo, quando mi accingo a entrare in un luogo naturale, sia esso un bosco, un prato o un sentiero di montagna, mi presento alle energie che lo abitano, “busso” all’uscio della loro casa, chiedo il permesso di camminare sulle radici degli alberi… E, forse, è anche per questo che dalla natura ricevo molto, quando la attraverso. Un po’ come quando, giunta in visita a casa di volti familiari, mi vengono offerti té, pasticcini e un mare di sorrisi.

Mel

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In groppa al Solstizio d’Inverno – Un viaggio iniziatico alla scoperta di noi stessi

Ogni anno, quando giunge questo periodo, l’umanità sale in groppa a un destriero pronto a traghettarla da un ciclo vecchio a uno nuovo. E ogni anno il viaggio che coinvolge tutti noi comincia dall’8 dicembre per concludersi il 6 gennaio, quando il cavallo s’arresta dopo aver esaurito il suo sacro compito.

Queste due date segnano l’inizio e la fine di un vero e proprio corridoio energetico, ricco di esperienze, ricorrenze e rituali che abbiamo dimenticato, ma che possiamo sempre recuperare per fare nostre le vibrazioni importanti del momento, attraversandolo con consapevolezza.

Fonte immagine: Pixabay

Senza saperlo, infatti, perdiamo molto lungo la strada, poiché siamo stati educati dalla nostra cultura e dalla società che questo mese, scandito da due feste a connotazione femminile (l’Immacolata Concezione e l’Epifania), sia da dedicare alle spese sfrenate e ai pranzi sfarzosi, ignorando ciò che di bello e importante accade dentro e intorno a noi.

Al di là del credo di ognuno, è possibile vivere questo periodo dell’anno con la sacralità che merita – e che meritiamo in quanto emanazioni divine noi stessi. Solo che non la conosciamo. E allora addentriamoci nella trasformazione alchemica che ci aspetta, proviamo a conoscerla, ad assaporarla e a farla nostra, poiché a lungo andare, se vissuta intenzionalmente, potrà fare davvero la differenza nelle nostre vite.

L’inizio del viaggio: l’Immacolata Concezione.

Come ogni iniziazione che si rispetti, il nostro viaggio eroico comincia con una purificazione. L’8 dicembre, giorno che in tutta l’antichità era preposto alla Madre Terra e alla sua integrità, ci racconta dell’unione tra l’energia maschile e quella femminile, tra quella celeste e quella terrestre. Due energie pure che entrano in contatto senza contaminarsi per dare vita a un essere nuovo. E dentro di noi, in questa data così sentita da tutta la cristianità, avviene questa stessa unione tra le nostre polarità opposte, questo concepimento: quello degli esseri che potremmo diventare, se ponessimo attenzione e ci abbandonassimo al particolare timbro energetico di questo momento.

Immacolata Concezione (Giambattista Tiepolo) - Wikipedia
Immacolata Concezione, Giambattista Tiepolo

Lungi dall’essere una festa riguardante la mera verginità per come la intendiamo oggi, l’Immacolata Concezione ci parla del seme divino che alberga in noi, puro, incontaminato, santo. Un seme che tutti possediamo: cristiani, pagani, buddhisti, islamici… l’Universo non fa differenza riguardo le etichette umane che poniamo su noi stessi, siamo tutti suoi figli, sue emanazioni. Quella scintilla, quel chicco di santità che abbiamo dentro, è integro e completo, proprio come lo furono Anna e Maria della tradizione cristiana, ma anche le antiche dee pagane, emanazioni della Grande Madre preistorica, e infatti è una giornata che incarna l’archetipo della Vergine, oltre a quello della Madre. E così dovremmo imparare a considerare noi stessi: integri, completi, accesi di quel fuoco sacro che è la Creazione. Questo era un giorno in cui l’antichità celebrava dee vergini dal grande potere e attuava rituali per purificare e benedire le acque e i fuochi. Quale invito migliore, dunque, per purificare e benedire le nostre acque interne, sia fisicamente che spiritualmente? Dopotutto è in quel nostro grembo che rinascerà il Sole Bambino, dunque questa ricorrenza ci ricorda l’importanza del ripulirsi da ciò che è vecchio e stantio, di prepararsi alla nascita che verrà, in vista della prossima soglia da attraversare…

La Soglia: il buio e la luce di Santa Lucia

Col sopraggiungere del 13 dicembre, ecco arrivare un’altra sacra ricorrenza che indossa vesti femminili. Si tratta di un giorno dalle valenze esoteriche ed energetiche ricche e importanti, un varco al di là del quale saremo catapultati definitivamente in una dimensione altra, dalla quale non si torna indietro. A Santa Lucia il buio regna sovrano e ci ricorda quanto lunghe possano essere le ombre che ci portiamo dentro. Ci consente di guardarle in faccia, di gustarle e sentirle stridere nelle orecchie… Eppure, in mezzo alla cupa oscurità di questo Inverno che sta per arrivare, la santa viene celebrata nella Luce, davanti alla fiamma baluginante delle candele.

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Illustrazione di John Bauer

Mancano 12 giorni al Natale. 12 come le notti che lo seguiranno e che hanno valenze simboliche degne d’essere esplorate. 12 come il numero assegnato al mese di dicembre e che rappresenta il compimento di un ciclo (Per saperne di più, leggi l’articolo “Dicembre“). Santa Lucia, dunque, è speculare all’Epifania: mentre quest’ultima rappresenta l’Anziana, coi suoi abiti logori e sfilacciati, la santa è giovane, regale con la sua testa cinta da una corona di bianche candele. Lei è l’archetipo della Madre, è colei che porta in grembo il Sole Bambino, lo nutre, lo attende. E se le 12 Notti Sante che seguono il Natale rappresentano la ricchezza e l’abbondanza dei doni, i 12 giorni che lo precedono sono invece discesa, introspezione, esplorazione dei regni interiori. Santa Lucia è la Portatrice di Luce nel buio, è colei che si appresta a scavare nelle tenebre, a sondarle, a considerare il suo ruolo di Madre e al potere che cova nel suo grembo. E’ perizia speleologica alla ricerca dei meandri inesplorati del nostro inconscio, per imparare a ri-conoscerlo. Una data, questa, che ci invita a prendere atto della responsabilità che ognuno di noi ha nel diventare re del proprio regno, genitore del proprio Sole Bambino. Ci esorta a illuminare le tenebre che ci portiamo dentro grazie alla luce divina di cui tutti siamo muniti.

La morte apparente: il Solstizio d’Inverno

Tra il 21 e il 22 dicembre nel nostro emisfero il Sole raggiunge la sua minima declinazione sull’orizzonte e qui parrà rimanere per i seguenti tre giorni. Tre giorni di morte con una precisa collocazione astrologica: la costellazione della Croce del Sud. Si tratta di una data che già nell’antichità era conosciuta come Porta degli Dèi, in contrapposizione alla Porta degli Uomini del Solstizio d’Estate.

Ireland’s shortest day of the year will not fall on December 21st this year. Photograph: John Lalor/NMS
L’alba del solstizio d’inverno a Newgrange, Irlanda. Copyright immagine di John Lalor/NMS

Queste due soglie rappresentavano le due estremità della Caverna Cosmica nella quale l’umanità entrava e usciva ciclicamente e simbolicamente. Col Solstizio Invernale, dunque, gli esseri umani emergono dall’antro che li ha visti discendere sempre più in profondità dentro se stessi, donando loro l’opportunità di rinascere come esseri divini, rinnovati, più consapevoli di se stessi e del loro potenziale (per approfondire le energie di questo giorno, puoi leggere l’articolo “Il Solstizio d’Inverno, Yule e Natale, feste del Sole“). Anche noi, come il nostro astro-padre, in questi tre giorni andiamo incontro a una stasi (solstizio deriva dal latino “sol stat“, ovvero “il sole si ferma”), una simbolica morte interiore. Si tratta di una soglia importante, di un momento cruciale che dovrebbe essere vissuto nel raccoglimento, come accadeva agli iniziati a cui si imponeva la morte apparente prima della grande iniziazione, provocata da sostanze psicotrope o da prove dure da affrontare e superare, come il restare per tre giorni all’interno di un sarcofago, al buio più completo, senza cibo né acqua. Il giorno del Solstizio d’Inverno era celebrato e assai sentito nell’antichità, che ha visto nascere le tradizioni più disparate al riguardo, come la battaglia tra il Re Quercia e il Re Agrifoglio presso i Celti, laddove era il primo a trionfare e a governare per i sei mesi successivi. La lotta tra polarità opposte si ritrova anche in Giano Bifronte, divinità posta a rappresentare la Porta degli Dèi e pronta a ricordarci che bene e male, passato e futuro, luce e buio non sono scissi, ma uniti e che in momenti di passaggio come quelli solstiziali coesistono, insieme alle infinite possibilità: siamo noi a scegliere chi essere, ci è stato dato il libero arbitrio per poter decidere se emergere dalla Caverna Cosmica rinnovati, divini, oppure se uscirne nella totale inconsapevolezza, perdendone il potenziale trasformativo.

Resurrezione dal regno infero: la rinascita del Natale

Tre giorni dopo il Solstizio d’Inverno, ecco il lieto evento: il Sole riprende la sua cavalcata verso Nord, annunciato dall’allineamento perfetto tra le tre stelle della Cintura di Orione – i Tre Re – e Sirio, avvenuto la sera del 24 dicembre (per approfondire, puoi leggere l’articolo “Il plenilunio del Lupo e la guida di Sirio“).

Questa alleanza stellare crea nel cielo l’immagine di una fittizia cometa, la cui testa, rappresentata da Sirio, indica il punto esatto nel quale il Sole sorgerà la mattina del 25. Poiché ciò che accade nel cosmo non è affatto scisso dall’essere umano, possiamo affermare che anche in noi risorga una luce rinnovata, il Sole Bambino che ognuno di noi si porta dentro e che ogni anno rigenera il nostro corpo a livello sottile, dando una nuova spinta alla scintilla divina che ci abita dentro. E’ una rinascita che si festeggia con tutti gli onori e che andrebbe vissuta con la consapevolezza di poter dedicare quella luce a un lavoro interiore importante lungo un anno. Una data, questa, che è da sempre associata alle divinità solari, sia maschili che femminili, e il Gesù cristiano non poteva fare eccezione, lui che è nato sulla soglia di una grotta – la Caverna Cosmica -, che è morto sulla croce – quella astronomica del Sud – e dopo tre giorni è resuscitato. Lui, che nell’iconografia è rappresentato con un’aureola solare a circondargli il capo, in cui è spesso iscritta una croce, quella della Ruota dell’Anno, delle Quattro Direzioni, del viaggio del Sole nel cielo. Quale che sia il credo di ognuno, il 25 dicembre è una data importante per celebrarsi: è rinascita, è partorire se stessi, è darsi alla luce come esseri divini e umani al contempo.

I tesori conquistati: le 12 Notti Sante e le Dame Solstiziali

Dal 25 dicembre al 6 gennaio si accede a un periodo importante, non più considerato dalla società in cui viviamo, ma conosciuto dai popoli antichi che in questi 12 giorni erano visitati dalle 12 Dame Solstiziali (per approfondire puoi leggere l’articolo “Le Tredici Notti“). Erano figure che propiziavano i raccolti, che elargivano doni all’umanità, Buone Dame pronte a essere generose con le donne e gli uomini fedeli alla tradizione.

Fonte immagine: Pixabay

Erano connesse alla filatura e alla tessitura e ogni notte controllavano che le case fossero pulite e in ordine. Sono dee che ci ricordano che possiamo tessere i fili del nostro destino e che dentro ognuno di noi, in questi giorni in cui il nostro Sole interiore è neonato, dovrebbero essere osservati la pulizia, l’ordine e il silenzio, poiché è solo così che potremo ricevere i doni che ci spettano: intuizioni significative per l’anno che verrà, utili a vivere al meglio il nuovo ciclo annuale che sta per iniziare. I loro doni giungono nottetempo non a caso: è nel buio che si celano i tesori più preziosi, è nelle tenebre più fitte che la luce può brillare con maggiore intensità. Sono giorni divini, dove le energie si rimescolano come in un grande calderone, brodo primordiale e caotico. Spetta a noi attraversarli con consapevolezza per ricevere i doni energetici e spirituali a noi destinati.

Conclusione del viaggio: l’Epifania

Le 12 Notte Sante culminano in quella dell’Epifania, la rivelazione, la piena manifestazione del divino nella materia. La figura associata a questa festività cristiana dal sapore pagano è la Befana, vestita di abiti consunti e rattoppati (per approfondire, leggi l’articolo “La Befana vien di notte…“). Lei rappresenta l’archetipo dell’Anziana, la Vecchia, colei che ha la piena conoscenza di se stessa dopo aver viaggiato tra i due cicli.

Vola sulla scopa a simboleggiare la fecondazione e la fertilità della terra, nella quale è presente il seme della nuova stagione che sboccerà presto. A lei sono associati il fuoco dell’Araba Fenice che risorge dalle sue ceneri, il carbone come energia latente della Madre Terra, i doni energetici che elargisce bonaria, da brava Dama del Natale quale è. Con lei tutto è manifesto, dentro e fuori di noi. Col suo arrivo siamo pronti a donarci al mondo come esseri completamente rinnovati, consapevoli della maturità raggiunta. Il viaggio iniziatico giunge al termine con i doni più grandi che possiamo esserci meritati: l’oro, l’incenso e la mirra dei Magi insieme ai semi della Befana – che sanciscono l’iniziazione avvenuta per chi ha attraversato il periodo solstiziale con consapevolezza – oppure il nero carbone dell’occasione bruciata, di chi ha ancora bisogno di prove per riuscire a vedere il mondo con occhi nuovi. Nessun premio e nessun castigo: solo ciò di cui abbiamo bisogno per la nostra crescita spirituale e individuale.

Il viaggio iniziatico ed eroico a cavallo di due anni, di due giri intorno al Sole, si conclude così: con la promessa della Primavera (prima-vera-vita) nella quale potremo risplendere, portando nel mondo talenti e virtù così come fa la terra, che dona fiori virtuosi ai suoi figli. In qualsiasi cosa tu creda, prova a considerare, da quest’anno in poi, il viaggio divino che sei chiamato/a ad affrontare, sali su quel cavallo solstiziale che non vede l’ora di riportarti a te e lascia che ti guidi attraverso mondi vecchi e nuovi al contempo, ora che li hai decifrati. Abbandonati e guarda cosa accadrà da oggi e negli anni a venire.

Con Meraviglia, Libertà e Amore nel cuore.

Mel

© Melania D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com

Se ti interessa approfondire le energie del periodo, ti consiglio di leggere anche questi articoli:

Da Mai Mona a Santa Lucia: culti dell’acqua nella Liguria di Ponente

Son cresciuta tra due fiumi, modellata dalle loro energie e da una terra lambita dal mare. Nell’utero materno prima e sulla terra poi, ho ricevuto un abbraccio d’acqua che mi porto dietro dalla mia vita intrauterina e che non mi abbandona mai, sta scritto in ogni mia cellula.

Sono cresciuta dove i monti sono piccoli giganti da guardare con meraviglia e che ti coprono le spalle e ti proteggono dal vento e da climi troppo rigidi. Sono presenze imponenti, che ti fanno sentire cullata tra braccia invincibili, ma mai troppo strette, lasciandoti libera di andare lontano, se vuoi.

Per questi motivi credo di riuscire a comprendere cosa dovessero provare i popoli che calcarono la Liguria davanti a certe manifestazioni del divino nella materia, come accade in una delle valli che solcano questa terra, a ponente.

Qui dormono ancora due déi in attesa di essere ridestati dal sonno, due cime sacre dedicate a Belenos il Brillante e a Mai Mona, la Grande Madre. Sotto di loro scorre un torrente cristallino e vivace, che fa balzi acrobatici tra le rocce e crea polle d’acqua che pure la più bella delle figlie di Teti e di Oceano vorrebbe accaparrarsi. Uno di questi laghi è dedicato ancora una volta a Mai Mona, grande Dea a cui le donne Liguri si rivolgevano in questi luoghi selvaggi per guarire, per chiedere benessere e fertilità.

Mai Mona, la Grande Madre

In un angolo della Liguria di Ponente si conserva ancora oggi, grazie alla preziosa memoria degli anziani, un culto antico e dalle forti connotazioni matriarcali. Mai Mona compare come toponimo connesso alle vette e alle acque e ci sono testimonianze di riti che la riguardano e che sono sopravvissuti sorprendentemente intatti fino a pochi decenni fa.

E’ il caso, per esempio, di una lastra d’ardesia su cui era raffigurata Mai Mona. Accanto a lei, c’era una piccola vasca di pietra simile a un mortaio, un’acquasantiera naturale atta a raccogliere le acque piovane. L’immagine sacra era posta nei pressi della cima dedicata alla Dea e, nel percorrere quel sentiero, il viandante lasciava offerte in suo onore, che consistevano in vivande simboliche dell’abbondanza della terra – come farinacei o frutti freschi – o della fertilità – come la frutta secca. Se nel mortaio era presente dell’acqua, il viaggiatore ne portava via un po’, raccogliendola in un contenitore che aveva portato con sé per l’occasione. Quel liquido sacro proveniente dal cielo, puro, incontaminato, sarebbe risultato utile in caso di malattia, poiché Mai Mona veniva invocata per ricevere guarigione e scongiurare la sterilità.

Gesti e credenze, questi, che rimandano alla concezione antica del dare e del ricevere, che noi esseri umani moderni abbiamo smesso di praticare, con grande danno di noi stessi e del prossimo. L’antica Dea dei primordi, infatti, insegnava che la Natura di cui ella stessa faceva parte poteva al contempo elargire e trarre a sé la vita, così come ogni elemento naturale dà e prende, in perfetta armonia con le leggi del cosmo. Noi esseri umani moderni, invece, siamo governati da due istinti malsani, il servilismo e l’egoismo, due demoni che ci portano o a prostrarci nel dare tutto ciò che abbiamo al prossimo – in termini di tempo e servizi – senza mai badare a noi stessi, oppure, al contrario, al non curarci del benessere altrui, indifferenti e privi di compassione. Non siamo più in grado di considerarci parti del Tutto, come invece facevano i nostri antenati con estrema saggezza. Oggi pretendiamo senza offrire nulla; vogliamo raggiungere la conoscenza senza sacrificio; non conosciamo il vero e profondo valore dell’offerta di sé. Allo stesso modo, elargiamo aiuti e consigli non richiesti; ci affanniamo per piacere agli altri, quando l’unica approvazione che stiamo inconsciamente cercando è quella di noi stessi; ci laceriamo pur di accontentare richieste di datori di lavoro/partner/figli, senza considerare la cosa più importante che abbiamo, e cioè noi stessi.

Sono concetti estranei a quelle popolazioni che vissero qui come altrove e che erano invece perfettamente allineate con le energie cicliche del cosmo. Se si desiderava chiedere la guarigione, si doveva lasciare qualcosa in cambio, a mo’ di sacrificio.

Dare e prendere. Offrire e ricevere. Non esistevano l’uno senza l’altro, non potevano essere scissi, così come non si poteva distinguere la vita dalla morte, poiché queste due polarità erano considerate appartenenti al medesimo ciclo dell’esistenza. Allo stesso modo, Mai Mona, la Grande Madre dei primordi, era Dea connessa a quelle acque che erano sinonimo di guarigione, di nascita, di vitalità… ma rappresentavano anche il liquido amniotico, le acque del grembo materno al quale ogni essere umano sarebbe tornato alla fine dei suoi giorni terreni, nonché l’inconoscibile.

La potente e preziosa raffigurazione di Mai Mona è andata perduta con il secondo conflitto mondiale, ma ne resta il ricordo fra i più anziani, così come si conservano tracce del suo culto in diversi luoghi del Ponente Ligure. Oltre a laghi, sorgenti e cime a lei dedicate, sono state trovate vasche artificiali di notevoli dimensioni scavate nella roccia e atte a raccogliere l’acqua piovana, soprattutto in luoghi d’altura ove i pastori erano soliti trascorrere i mesi estivi con il bestiame, lontano dai laghi a fondovalle. Sintomo, questo, della magnificenza che ispirava questa dea primordiale e arcaica che in epoca cristiana finì per essere identificata con la Vergine Maria, se, pur di venerarla, l’uomo di un tempo si spingeva a compiere opere grandiose in luoghi scoscesi dove l’acqua poteva essere raccolta solo dal cielo.

E proprio in questi luoghi intitolati a Mai Mona, il cristianesimo eresse cappelle dedicate alla Madonna e a Santa Lucia.

Da Mai Mona a Santa Lucia

A questo punto, sorge spontanea una riflessione. Sappiamo che sui picchi che incorniciano i luoghi di Mai Mona – come il Monte Abellio o Colle Belenda, per esempio – dorme il dio Belenos, il brillante e luminoso, colui che è connesso al fuoco della forgia e dell’illuminazione. Ma quel Belenos, più tardo rispetto a Mai Mona, potrebbe in verità essere la trasposizione patriarcale di un’altra divinità: Belisama, considerata sua consorte e dea anch’ella preposta al fuoco e all’artigianato, ma pure alle acque. Dunque, da Mai Mona, si potrebbe essere passati alla divina e gallica Belisama, poi al luminoso Belenos.

Col sopraggiungere della cristianità, visto il fervore con cui le pratiche pagane e arcaiche venivano ancora praticate dal popolo, la Chiesa dovette arrendersi alla potenza dei culti femminili, accontentando coloro che non volevano abbandonarli. Le antiche dee e i riti a esse connesse, dunque, furono inglobate da figure femminili cristiane, come Santa Lucia.

E non è certo un caso che sia stata scelta proprio lei a fare da guardiana a un luogo così potente energeticamente, una santa connessa alla luce e al fuoco, le stesse di Belisama, e al ciclo di vita-morte-rigenerazione della più arcaica Mai Mona.

Santa Lucia, infatti, racchiude in sé le polarità luce-buio, vita-morte, principio-conclusione che fanno parte di tutte le dee più arcaiche, compresa Mai Mona. Lucia, diretta discendente di divinità come la Perchta e di spiriti come Lussi, è collocata nel calendario cristiano in quella che per gli antichi era la notte più buia e oscura dell’anno, il 13 dicembre, e lei giungeva con la sua corona di candele posta sul capo a illuminare le tenebre e a portare doni ai più piccoli. Ma nella sua versione più arcaica e pagana, Lussi (Santa Lucia) era uno spirito femminile connesso al mondo ctonio e che esigeva rispetto; non elargiva i suoi doni a chi non li meritava, spalancando l’oscurità per chi non osservava riposo e silenzio durante le notti che si avvicinavano al solstizio invernale. Ella presiedeva le nascite e decideva quando dovesse sopraggiungere la morte. Ecco, dunque, tornare la Dea primordiale nel suo carattere sia vitale che mortifero, sia luminoso che oscuro.

Lussi/Santa Lucia è connessa con le attività della tessitura e della filatura (artigianato a cui è preposta anche Belisama), il che la rende una figura divina legata al fato, esattamente come le Norne, le Moire e le Parche, dirette eredi della Grande Madre primordiale. La rete disegnata dal filo nella trama e nell’ordito richiama il simbolo acquatico della rete da pesca, inciso in epoca matriarcale su diversi supporti e che la Gimbutas ipotizzò essere un attributo della Dea dell’Antica Europa, la Mai Mona venerata dai liguri, in particolar modo nel suo essere legata alle acque.

Esiste, dunque, un’evidente connessione tra queste tre figure divine – Mai Mona, Belisama e Santa Lucia – un collegamento che pare tracciare i disegni di un arazzo prezioso e antico, giunto sbiadito fino ai giorni nostri, ma ancora vivo nella cultura nostrana.

Non credo al caso, tuttavia non ho certezze. Ho dalla mia “solo” il sentire che i luoghi lasciano sottopelle, un fiuto che, a prescindere dai nomi che diamo alle cose, mi dice quanto ritrovare il sacro in ogni sua forma sia un atto di grande Bellezza e Coraggio.

Mel

© Melania D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com

Donati al mondo

Ogni cosa nell’Universo manifesta pienamente se stessa. Ogni cosa è, esiste, e come tale riveste un ruolo, che non è solo quello di “prendere” (nutrimento, luce, acqua, insegnamenti, vita…) ma anche quello di “dare”, offrire parti di sé, e così facendo Tutto è più ricco e carico di abbondanza per tutti i suoi esseri. Ciò accade quasi in sordina, senza mettere manifesti né la mediazione di una mente che calcola, valuta, discerne.

Un albero dona ossigeno, fiori, polline e frutti. Senza chiedere nulla in cambio. Così è e così sarà sempre.
Gli insetti donano nuova vita alla terra trasportando il polline. Senza chiedere nulla in cambio. Così è e così sarà sempre.
Gli animali donano equilibri agli ecosistemi. Senza chiedere nulla in cambio. Così è e così sarà sempre.
Le rocce offrono sostegno. Senza chiedere nulla in cambio. Così è e così sarà sempre.

E noi esseri umani?

Ho trascorso tanti anni della mia vita chiusa in un bozzolo, trincerandomi dietro un inespugnabile guscio di spine. Da esso non trapelava nulla di me, solo chiusura.
Ero un essere apparentemente sterile, che non concorreva alla ricchezza e all’abbondanza del mondo. Persino inespressiva, trincerata dietro una corazza protettiva che mi impediva di essere ferita.
Avevo un bagaglio riempito a dismisura di paure, dubbi, insicurezze. Il giudizio che avevo di me era limitante, schiacciante e lasciavo che mi governasse, annullandomi.

“Se copri un’immagine d’oro con un telo nero, potrai dire che l’immagine si è annerita? Certo che no! Sai bene che, dietro quel velo, l’immagine è ancora dorata. E così sarà quando strapperai il velo nero dell’ignoranza che ora nasconde la tua anima: contemplerai, ancora una volta, l’immutabile bellezza della tua natura divina. Tu sei divino, devi solo averne consapevolezza. Devi guardare dentro di te.”

~Paramhansa Yogananda~

Quanto tempo ho impiegato a guardare quel telo nero, senza riuscire a scorgere l’immagine dorata che da sempre esisteva sotto di esso… Quanti anni trascorsi a concentrarmi solo su quello che di me non andava bene, che dovevo cambiare, scardinare, disgregare.

Oggi non sono più quella Mel.

A poco a poco, con un lento e paziente lavoro su di me, ho allentato la presa su quella zavorra che mi portavo appresso, liberandomi dei pesi che avevo sul cuore. E ho iniziato a scolpire la nuova me, anche grazie alla guida di chi era più avanti nel percorso della vita e con l’aiuto terapeutico di Madre Natura.

E allora, solo allora, ho compreso.

Cosa accadrebbe se un albero avesse paura di fiorire e privasse la Terra dei suoi doni? E se il sole e le stelle non brillassero più?

Nel rispondere a queste domande mi son chiesta perché per noi esseri umani sia spesso difficile donare talenti, qualità, amore, energia consapevole al mondo, perché ci lambicchiamo con dubbi e insicurezze, lasciandoci bruciare internamente da un fuoco distruttore che fa piazza pulita di tutto.
Così facendo ci estraiamo da quella Natura di cui siamo parte. Feriamo noi stess* e priviamo l’intero Universo delle bellezze che abbiamo e che sarebbero doni inestimabili per molt*, tenendoli chiusi in uno scrigno di cui, spesso, non ricordiamo neppure dove sia la chiave.

Ma la vita non può consumarsi così. Perché non è vita.

Persino il seme, chiuso in se stesso, ha in sé la forza di germogliare nel buio, di forare la terra che l’avvolge ed emergerne trasformato. E quella forza, quel coraggio, sono anche nel nostro cuore, coperti dai “non sono abbastanza”, “cosa lo faccio a fare?”, “gli altri son più bravi di me”.

Ma non siamo qui per questo.

Siamo qui esattamente come l’albero che fiorisce e fruttifica senza domandarsi se i fiori del pesco siano migliori di quelli del mandorlo.

Siamo qui come il lupo che caccia ungulati per nutrirsi e che, senza saperlo, fa sì che il bosco resti più intatto e vitale.

Siamo qui come la farfalla che col suo volo incanta e ispira potenti metafore di rinascita.

L’albero, il lupo, la farfalla… si donano al mondo, vivono, esistono nella loro completezza.
Perché noi rendiamo la nostra vita così difficile?

E allora mi e ti dico: non privare il mondo della tua luce e del nutrimento che puoi offrire.
Dona! Vivi! Sii te stess*!

Col cuore e dal cuore.

In piena libertà.

Mel

Da Dee a Bàgiue – Storie di streghe a Triora, in Valle Argentina

Triora, nel cuore delle Alpi Liguri, è un borgo arroccato su un monte, ricco di fascino e che attira ogni anno visitatori e curiosi. Il suo magnetismo è dovuto alla sua storia antica e intrisa di capitoli assai dolorosi, ricordati ancora oggi durante le manifestazioni che animano questo gruppo di case di pietra, legno e ardesia. Triora è chiamata non a caso la Salem d’Italia, poiché fu teatro di uno tra i più feroci processi per stregoneria, sul finire del Cinquecento.

E, propro a partire dalle vicende storiche che segnarono la comunità del borgo, sono sorte leggende curiose riguardo queste donne che qui si chiamano Bàgiue o Bàggiure, ma anche sui luoghi che erano solite frequentare, visitabili ancora oggi.

Ci sono, poi, curiose coincidenze che, lette in chiave esoterica, aprono interessanti scenari che inducono alla riflessione. È il caso, per esempio, del quartiere triorese denominato Sambughea per via dei sambuchi che qui vi crescevano… e nella tradizione popolare il sambuco è caro alle fate così come alle streghe, legato all’oltremondo. Dopotutto, indagando fra le pieghe di certe leggende e certe storie, si scopre che fate e streghe hanno molto in comune, in fondo, ben più di quanto si possa pensare.

Tra superstizione, leggende e realtà.

Il termine “strega” è nato con accezione dispregiativa per designare tutte quelle donne che si credeva fossero in grado, con le loro malìe, di nuocere alle persone, soprattutto ai bambini, ma anche al bestiame e ai raccolti.

Tratto distintivo delle bagiue nostrane erano i capelli color rame, tinta assai temuta, tanto che persino il bestiame non poteva avere il pelo rosso. A riprova di ciò, le vacche della Valle Argentina hanno ancora il manto candido come la purezza, ma questo non bastava a proteggerle dalle fatture delle maliarde.

Quando gli animali non producevano latte o erano irrequieti e quando i neonati non smettevano di piangere, si diceva che fossero “abbaggiurati”, stregati, e c’era un solo modo per risolvere il problema: chiamare lo scacciabazure, un uomo, un mago in grado di sciogliere il maleficio. È quanto accaduto agli inizi del Novecento in due episodi documentati da Padre Ferraironi nella borgata di Bregalla, appartenente al territorio di Triora.

E fa riflettere il fatto che fosse una donna a fare del male, mentre era un uomo a dimostrarsi salvifico, poiché risanava ciò che era stato alterato e riportava l’equilibrio laddove era stato compromesso. Un concetto, questo, in linea con il pensiero patriarcale che vede la donna come fonte d’ogni male, guidata da basse pulsioni nonché essere malefico ispirato dal demonio. Questo modo di percepire la donna si pone in netto contrasto con il sentire delle precedenti società a stampo matriarcale, dove donna era sinonimo di Dea, natura e ciclicità della vita.

Molti erano i luoghi prediletti dalle bagiue per i loro convegni e divertimenti, e non si può dar loro torto, visti i panorami e i paesaggi che, a quanto si vocifera, erano scelti come sfondi delle loro riunioni e malefatte.

La Cabotina è in cima alla lista, oggi un nugolo di ruderi al limitare di una cupa foresta, dove le pietre accolgono spesso i ricci e le foglie dell’ippocastano. Un tempo era la zona più malfamata della città. Vi crescevano alberi di noce, andati distrutti con la prima guerra mondiale, che la tradizione popolare vuole donino preveggenza, ed erano piante consacrate alla dea Diana, a cui molte donne si appellavano ancora al tempo della caccia alle streghe.

Dalla Cabotina, si gode di un’ampia vista a strapiombo sulla valle, e forse per questo nacquero storie del famoso volo delle streghe, che potevano raggiungere in questo modo località lontane, come il Ciotto di San Lorenzo, che conserva un antichissimo menhir, e all’isola Gallinara, dove incontravano altre sorelle e congreghe dopo essersi trasformate in rapaci notturni.

C’è poi Lago Degno, una polla d’acqua scavata dal torrente e in cui si diceva che le bagiue evocassero il demonio in persona… ma non può esserci nulla di demoniaco in un luogo tanto incantevole. Qui, l’acqua, elemento essenziale della vita e che compone la maggior parte delle nostre cellule e di quelle del pianeta, scorre in poetica libertà. Avevano ottimi gusti, queste streghe, vere amanti del bello e della vita, se sceglievano con tanta cura i luoghi delle loro fughe.

E ancora oggi, su certe alture che incorniciano Triora, compaiono i cosiddetti cerchi delle streghe, situati in luoghi di grande bellezza, in cui pare di toccare il cielo e abbracciare l’essenza di tutte le cose.

Eppure, nonostante la loro tremenda fama, è emblematico il fatto che le storie a cui i Trioresi sono forse più affezionati le vedono misericordiose, benevole, come accade nella storia dei due bimbi che le streghe guarirono dalle gobbe, o come quella che vede una di loro consigliare un uomo della città dinnanzi alla Fontana di Campomavue, e che seguendo il suo consiglio, portò benessere e ricchezza a se stesso e a tutta la sua famiglia.

I due bambini gobbi e le bagiue

La leggenda vuole che nel paese, ai tempi, vivessero due bambini nati gobbi. L’uno era povero, l’altro aveva avuto la fortuna di nascere in una famiglia benestante e agiata. Tutti i bambini di Triora sapevano che quando sopraggiungeva il tramonto, non si sarebbero dovuti far cogliere impreparati: era l’ora in cui le porte cittadine venivano chiuse per la notte e il momento in cui le streghe divenivano più pericolose, poiché favorite dalle tenebre. Tuttavia, accadde che una sera il bimbo gobbo povero non riuscì a rientrare per tempo nella sua casa. Restò chiuso fuori dalle mura della città, nella spaventosa zona della Cabotina. La nebbia leggera saliva dal fiume, giù a valle, e solo i rapaci notturni osavano interrompere il silenzio. Il bubolio di un gufo fece sobbalzare il piccolo, che tuttavia tentò di non abbandonarsi alla paura, finché una donna vestita di stracci non gli venne incontro, toccando con la mano ossuta la sua deformità. Era spaventato, ma non lo diede a vedere, inghiottendo i suoi timori e dimostrando un coraggio che non possedeva. E giunsero altre donne insieme alla prima, che lo portarono in una delle case di pietra alla periferia della città. Lui si lasciò guidare, pregando che la sorte fosse clemente con lui, e così fu. Le donne lo nutrirono, gli diedero un luogo caldo in cui trascorrere la notte e massaggiarono la sua gobba, finché non cadde addormentato. Al suo risveglio, le donne erano sparite e con esse anche la sua gobba. Quando al mattino le porte del paese riaprirono, stentavano tutti a riconoscere il giovanotto e ben presto si sparse la voce della miracolosa guarigione avvenuta per mano della bagiue, giungendo alle orecchie della madre dell’altro bambino gobbo. Scaltra e determinata a liberare il figlio di quel peso che deturpava l’immagine sociale dell’intera famiglia, quella sera la donna costrinse il suo bambino a trascorrere la notte fuori dalla città. A nulla valsero i suoi pianti di paura e il rumore dei suoi pugni che battevano sul legno delle porte, orbite chiuse ai suoi capricci. E anche quella notte, le bagiue tornarono, attirate dal pianto. Quando videro il secondo bambino deforme, si sentirono sfidate e offese e, per dimostrare il rispetto che meritavano, in tutta risposta donarono una seconda gobba al povero sventurato. La madre ne restò scioccata, così come il bambino. Ma infine, resesi conto che un essere innocente non poteva pagare per la superbia dei propri genitori, le streghe furono mosse a compassione e guarirono anche il secondo bimbo gobbo, ricevendo la gratitudine e il rispetto dell’intera comunità che ancora oggi ricorda con affetto l’episodio.

Si tratta di una storia, questa, che mescola superstizione ad antica saggezza popolare, una fiaba che intreccia le sue radici con storie assai simili provenienti da altre parti d’Europa e del mondo e dalla quale emergono diversi tratti interessanti della strega, o meglio, dell’archetipo della Donna di Conoscenza, che col tempo ha assunto diversi nomi: Herbana, Strologa, Janara, Masca, Cogas, Diana, Domina Herbarum… Tutti termini popolari e dialettali che descrivono le doti taumaturgiche di queste donne, qualità che non erano scisse dalle ombre e dal buio con cui spesso andavano a braccetto; un’oscurità che spaventa, ma che ha un fondamento ben preciso e una spiegazione forse più luminosa di quanto saremmo portati a credere dalla cultura in cui abbiamo vissuto e che ci influenza ancora oggi.

Le antenate delle streghe

Volendo provare a contattare una verità alternativa a quella che ci è sempre stata tramandata da leggende e racconti popolari, volti a esorcizzare ciò che non si conosceva e che, perciò, spaventava, proseguiamo il nostro viaggio andando alla ricerca degli indizi storici più arcaici, suggeriti anche dagli studi archeologici, uniti a quelli della mitologia e del sistema di credenze dei primordi, quando l’essere umano viveva in modo più ferino, a stretto contatto con le energie telluriche e di tutti gli altri elementi che compongono la realtà naturale.

C’è stato un tempo, anche assai recente, in cui le storie di streghe si narravano intorno al focolare. Tali racconti servivano a intrattenersi durante il periodo più freddo dell’anno, dai primi giorni di novembre e fino alla fine di marzo, e animavano le case di Triora e del suo territorio.

A essere raccontate erano vicende vere, ma come accade sempre nella tradizione popolare, la storia ha finito per essere condita e ricamata, tanto da sfociare nella leggenda.

I racconti di bagiue sono spesso ambientati presso le grotte e i corsi d’acqua. Alle streghe era attribuita la  capacità di assumere forma animale, come di rane e rospi o di rapaci notturni. Proviamo, dunque, a vedere se in tutto questo ci sia un fondamento e, per farlo, scaviamo fra le scoperte archeologiche di questa valle plasmata dal torrente Argentina.

Sono diverse le cavità rocciose disseminate nel territorio di Triora, molte con nomi riconducibili al mondo magico e naturale, come il Buco del Diavolo in località Borniga o la Tana della Volpe dirimpetto a Loreto. Sono appellativi non privi di criterio, che rimandano alla demonizzazione avvenuta in epoca cristiana.

Qui gli scavi hanno restituito reperti che testimoniano la devozione dei nostri antenati per la Madre Terra, tanto da affidare al suo grembo – la grotta – i defunti, cosicché tornassero nel suo utero cosmico per rinascere (Per approfondire puoi leggere il mio articolo “Riti sepolcrali preistorici in Valle Argentina – Nel ventre della Grande Madre“).

La Grande Madre primordiale era in ogni cosa, esattamente come la natura dalla quale non era affatto scissa: lei era la vita che risorgeva a primavera, era nelle nuove nascite che animavano la comunità, nel regno animale e in quello vegetale, ma la sua divina presenza era anche nella morte e nel disfacimento della carne, così come nelle tempeste naturali e nella potenza di cataclismi e calamità.

I nostri antenati avevano una spiritualità incentrata sulla donna e i suoi cicli, sul suo rispecchiare le caratteristiche della Grande Madre. Questa connessione profonda con la natura portò gli uomini e le donne preistorici a scorgere ovunque la presenza della Dea.

Così le civette e i rapaci, che regnano sulla notte, divennero simbolo della morte e della rinascita che ne sarebbe seguita, mentre le rane e i rospi, per la loro essenza sia acquatica che terrestre, veicolavano trasformazione, rigenerazione e fertilità. L’acqua, poi, era tenuta in altissima considerazione, poiché nell’immaginario arcaico era paragonata al liquido amniotico e, perciò, alla vita. I nostri antenati non mancarono di utilizzare tali figure nell’arte, soprattutto quella destinata a uso sepolcrale. E civette, rane, uova e simboli acquatici compaiono anche nei ritrovamenti delle grotte trioresi.

Ma torniamo alle nostre streghe, conosciute come bàgiue, bàggiure, bàzure. Questi termini dialettali condividono la radice con un’altra parola ligure: baggiu, il rospo. La corrispondenza etimologica di questi nomi potrebbe avere radici archetipiche arcaiche, riconducibili proprio all’antica Dea della vita, della morte e della rigenerazione, o alle sue sacerdotesse, donne fiere, ispirate dal divino che le abitava e perciò detentrici di potere e carisma, che utilizzavano nel presiedere ai riti di passaggio, tra cui anche la morte.

E allora, l’origine di quella che ancora oggi chiamiamo col termine strega è forse da connettersi a ciò che c’è di più semplice e naturale nell’esistenza umana, laddove “strega”, bagiua, è colei che possiede una sensibilità raffinita, ferina, perfettamente allineata con il Creato di cui conosce i segreti, poiché li possiede dentro di sé e li manifesta attraverso il suo vivere.

Le donne che furono accusate erano spesso conoscitrici di erbe e rimedi medicamentosi, levatrici, guaritrici… e, come tali, avevano il compito di risanare gli strappi sulla tela della salute, di guidare verso la luce di questo mondo i nuovi nati… Ma va da sé che, per fare ciò, dovessero conoscere anche i segreti della morte, cosa che ogni donna sperimenta in sé a ogni ciclo mestruale, e questo non poteva ricevere approvazione e riconoscimento in una società che ha fatto del controllo, del dolore, del conflitto, della linearità, della razionalità e dell’antropocentrismo il suo fondamento. Come si può accettare ciò che non si può spiegare con la ragione e con il calcolo? Che timor panico suscita ciò che esula dall’umano controllo per sfociare nel divino, nel “soprannaturale”?

Le donne e le bagiue erano – e sono tuttora – legate a Madre Natura in modo indissolubile, così come lo è anche l’uomo, ma il sesso femminile ha una predilezione per il dare e il togliere, il prendere e il restituire, rispecchiando e materializzando in modo tangibile e inequivocabile nel suo corpo il ciclo eterno che regola ogni cosa. È la stessa ciclicità che si manifesta nel susseguirsi delle stagioni, nei poli opposti di Calendimaggio e Ognissanti, così come nelle ore del giorno e della notte, nelle fasi lunari. Spetta all’essere umano reimparare a vedere quanto luce e buio, vita e morte siano strettamente interconnessi, abbracciandoli e riconoscendoli anche dentro di sé.

© Mel D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com

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Il Cervo, fiero e gentile sovrano dei mondi

Sentirlo bramire in Autunno, nella sua stagione degli amori, è una delle esperienze che più ci connette alle nostre ataviche e selvagge radici. Il Cervo, come il Lupo e l’Orso a cui è strettamente legato, è uno degli animali che incarna in modo diretto l’archetipo dello spirito selvatico libero e forte, e per molte culture rappresenta un potente messaggero dell’Oltre.

Il nome di questo animale per molte culture ha sempre avuto il significato generico di “animale selvatico”, e questo ci fa comprendere come il Cervo sia strettamente connesso con la selvatichezza, con l’idea della vita inviolata di una natura vergine, integra.

In contrapposizione a ciò, tuttavia, c’è il fatto che questo animale, considerato Re della Foresta per la maestosità del suo portamento, è da sempre oggetto principale della caccia per mano dell’uomo, fin dagli albori, caratteristica che ha fatto nascere intorno a questa figura una profusione di miti e leggende riguardanti proprio il mondo venatorio.

Il folklore, infatti, trabocca di storie di re e cacciatori che, per seguire un cervo o una cerva si sono perduti nel bosco e hanno finito per vivere meravigliose e strabilianti avventure. Ne sono un esempio i racconti di Re Artù e dei suoi cavalieri, ma anche delle gesta irlandesi dei Fianna. Proprio a causa di un cervo, Sir Galvano finì per immergersi in vicende inaspettate e impreviste. E fu una donna sidhe, trasformata in cerva dalla maledizione di un druido meschino, a mettere al mondo il grande bardo Ossian, figlio del mitico eroe irlandese Fionn MacCumhaill (se vuoi saperne di più riguardo la figura di Ossian, ti consiglio di leggere il mio articolo “Ossian e Niamh, tra Spirito e Materia“). Il condottiero la incontrò proprio durante una battuta di caccia, risparmiata dai cani di lui poiché ne avevano riconosciuto la natura umana.

Queste e altre storie contengono una morale assai interessante su cui soffermarsi, che fa parte del messaggio energetico di questo mammifero: coloro che non cacciano per aggressività e per infliggere la morte, ma per conoscenza, possono essere condotti sempre più in profondità nel cuore della foresta e a incontri con il Mondo Altro, quel regno fatato che è dimensione dell’Anima e dello Spirito, contrapposti alla materia e alla carne.

Ma il Cervo non è importante solo nelle storie e nei racconti, bensì anche a livello spirituale: Buddha assume spesso la forma di questo animale, ad esaltare il suo messaggio di innocenza e di ritorno alla natura. Giunse a rappresentare persino il Cristo per i principi di resurrezione che ispira in chi impara a conoscerlo oltre l’aspetto meramente terreno che Madre Natura gli ha dato.

I palchi di corna crescono solo sugli esemplari maschi e si rinnovano ogni anno. Hanno funzione fortemente protettiva, se si considera che crescono proprio dietro gli occhi dell’animale e che lo aiutano a difendersi in caso di attacco o durante le lotte con i rivali. Inoltre, sono paragonabili ad antenne che connettono a più alti piani di armonizzazione. A livello totemico, la presenza delle corna può essere indicativa dell’attenzione da prestare ai pensieri più intimi e alle percezioni, alle intuizioni; data la crescita progressiva di anno in anno dei palchi, il cervo indica la ricerca di espansione in chi possiede questo totem. Visto il rinnovamento annuale delle corna, il Cervo ha finito per simboleggiare la vita che ringiovanisce continuamente, la rinascita e la ciclicità del Creato. Ecco perché questo animale divenne rappresentante diretto del mondo divino, arrivando a incarnare déi e dee. La sua forza è in perfetta sintonia con i ritmi naturali e le sue corna sono un’immagine limpida del ciclo di Vita-Morte-Rinascita, che lo ha reso un simbolo magico e potente di longevità e abbondanza, soprattutto per la caratteristica vegetale – quella delle corna così simili a rami – accostata a un rappresentante del regno animale.

I sensi dei cervi sono molto acuti. Gli occhi sono in grado di percepire movimenti anche a notevoli distanze e sanno captare contorni e contrasti anche in condizioni di scarsa visibilità. Lo stesso accade coi sensi dell’udito e della vista di chi ha questo totem.

Il Cervo si mostra quando è tempo di coltivare la gentilezza per se stessi e per gli altri, di risvegliare una nuova freschezza e nuove avventure da intraprendere con la stessa innocenza dei cuccioli e dei bambini.

Il maschio vive un’esistenza per lo più solitaria contendendosi gli harem di femmine con altri pretendenti, con i quali ingaggia furiose battaglie a suon di cornate. Per queste caratteristiche, il cervo rappresenta sicuramente anche l’orgoglio, la fierezza e la fermezza, quelle che fanno di lui un vero Re, insieme a un innegabile bisogno d’indipendenza che si mescola non di rado con quello di solitudine e del portare avanti progetti e ideali in compagnia di se stessi. L’essenza del Cervo parla della caparbietà e della forza nel difendere il proprio territorio e i propri indiscutibili diritti e bisogni fondamentali, come quello di riprodursi e di assicurare non solo protezione al proprio nucleo familiare, ma anche una prolifica discendenza della specie. Questo, a livello energetico, si traduce con il bisogno di affermarsi, di riconoscersi forti e fieri sovrani del proprio mondo, centrati e fortemente connessi non solo con i piani più alti e sottili (indicati dalla corona di corna), ma anche di quelli terreni e materiali, laddove chi ha questo totem pro-crea, in-semina progetti e idee affinché trovino la strada per far germogliare il Tutto. Gli esemplari maschi, per la possanza, l’agilità e il vigore, inoltre, sono diventati simbolo del guerriero e di colui che combatte con coraggio.

Le cerve, invece, incarnano la grazia e la gentilezza del principio femminile. Sono state considerate messaggere dell’Altromondo in grado di condurre al regno delle Fate: invitano, infatti, a guardare oltre il materiale e la superficialità per giungere al cuore delle cose, alle cause piuttosto che agli effetti. Invitano all’esplorazione della dimensione spirituale dell’esistenza. Le femmine di cervo erano particolarmente sacre ai Druidi e ai Celti. In Scozia si credeva fossero allattate dalle fate sulle vette montuose e che fossero in verità fate che avevano scelto di assumere forma animale. Sempre in Scozia si raccontava che esistessero tre grandi dee che si prendevano cura di questi animali fatati, chiamate Cailleach: una viveva sulle montagne, un’altra aveva il compito di proteggere le femmine dai cacciatori, mentre alla terza spettava allattarle e farle pascolare sulle colline e nelle foreste. Nelle leggende irlandesi, invece, la cerva rappresenta spesso il legame con la terra e con la Grande Dea, che doveva essere rispettato soprattutto dai capoclan e dai sovrani. Era identificata spesso con Flidhais, dea irlandese di tutto ciò che è selvaggio, simile alla mediterranea Diana. Ella era corrispettiva delle tre dee-streghe scozzesi, poiché accudiva i cervi tanto da divenirne la divinità.

The Enchanted Forest by John Anster Christian Fitzgerald, (1819 - 1906) |  Vintage fairies, Art, Art prints
The Enchanted Forest, John Anster Christian Fitzgerald.

Nella tradizione celtica i cervi erano chiamati “tori delle fate” o “bestiame della Dea”. Per il loro carattere di intermediari tra il mondo umano e quello divino/fatato, divennero presto psicopompi, accompagnatori di anime da un regno all’altro. Ecco, dunque, che questo ruolo li accosta facilmente al periodo di Samhain, momento dell’anno in cui il velo tra i mondi si fa più sottile, consentendo scambi tra le dimensioni.

Il Cervo porta qualità di maestosità e integrità, offre un nuovo senso dell’equilibrio e di protezione. Meditare su questo archetipo nei momenti di vulnerabilità aiuta a trovare la forza, la centratura e la sicurezza in se stessi. Questo animale è fortemente iniziatico, tanto che nell’alfabeto arboricolo celtico Ogham è associato alla Betulla, la prima lettera e l’albero che più di ogni altro benedice i nuovi inizi. Per questo, i cervi sono di buon auspicio quando si è in procinto di dare il via a qualcosa di nuovo. Inoltre, sono animali connessi alla fertilità, alla sessualità, come ci tramandano l’arte rupestre e l’artigianato preistorico, secondo cui la testa coronata dai palchi del cervo era espressione dell’utero per la sua somiglianza con esso, ma anche delle acque e delle fonti, che rimandano alle doti creative e vitali della Grande Madre dei primordi.

Pitture rupestri del bacino del Mediterraneo nella penisola iberica -  Wikipedia
Pitture rupestri spagnole, 6.000 a.C.. Fonte immagine: wikipedia.

In tempi più recenti, il Cervo è stato associato al dio Cernunnos, signore degli animali e delle foreste, raffigurato come un uomo con le corna. Anch’egli, come l’animale di cui porta gli attributi, è associato alla fertilità e alla sessualità, alla caccia e al raccolto. Talvolta è visto anche come il Signore della Caccia Selvaggia che trasporta gli spiriti dei defunti nell’Altromondo. Questo dio celtico sembra essere stato presente fin dal mesolitico, poi utilizzato dal cristianesimo per forgiare l’immagine per antonomasia del Diavolo, demonizzando così la spiritualità primeva, incentrata sulla natura e sulle sue forze. Nelle nostre zone alpine, soprattutto quelle di cultura occitana, ha assunto il nome e le sembianze di Lou Barban.

Se nella vostra vita o nel vostro cammino spirituale doveste incontrare un Cervo, fate tesoro dei suoi insegnamenti, delle sue energie e dei suoi messaggi per voi, e state pur certi che qualcosa di nuovo e di assai potente di prospetta nel vostro immediato futuro.

Con selvatica libertà.

© Melania D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com

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Fonti:

Agosto

Mese preposto alle vacanze, alle grandi feste che aiutano a scaricare tensioni e fatiche dell’anno lavorativo trascorso, agosto è contrassegnato dalla tenacia del caldo, che però cede lentamente il passo all’Autunno di cui mostra già i primi segni, come l’erba ingiallita nei campi, gli alberi stanchi le cui foglie impallidiscono e sbiadiscono, o ancora l’uva che matura sulla vite, segno dell’approssimarsi della vendemmia.

Il nome di questo mese, come quello che l’ha preceduto, deriva da un personaggio, il primo imperatore romano Cesare Augusto. Il numero a esso associato è l’otto, che indica pienezza e quiete e simboleggia l’equilibrio cosmico. E’ un numero che ispira e promette compimento, nuova vita, resurrezione e, come sempre, non è un caso che sotto l’egida agostana si concluda – si compia – il ciclo agricolo con il raccolto, insieme all’auspicio di un nuovo giro di ruota all’insegna dell’abbondanza e della vita.

Ed ecco allora fiorire nel mondo antico una profusione di feste in cui si rispecchia molto della mentalità e delle abitudini della popolazione, celebrazioni di cui abbiamo quasi del tutto perso la memoria, ma che ancora parlano al nostro cuore della profonda connessione con la natura che potremmo ritrovare.

Il calore di queste giornate rimanda sicuramente alla forza del sole, motivo per cui ispirò feste dedicate a divinità e personaggi dallo spiccato carattere solare, come il celtico Lugh e il romano Ercole.

Il primo giorno di agosto era dedicato alla festa di Lughnasadh presso i Celti, che prevedeva lauti banchetti, condivisione del raccolto e tradizioni dedicate al grano (per approfondire, leggi gli articoli “Lughnasadh e Lammas, feste del raccolto” e “Il pane di Lammas trasforma anche noi“). In questo giorno avveniva la grande assemblea del popolo d’Irlanda, che si riuniva a Tailltiu per scopi commerciali e di divertimento.

Grain Child Spirit Of Abundance
Copyright immagine e opera: Victoria Musson

Si celebrava con riti estatici il dio Lugh, che spesso fu associato e sostituito da Apollo in epoca romana, poiché come lui era poeta, medico e suonatore, oltre che fabbro e guerriero. Per la tradizione cristiana, inoltre, è interessante notare come questo primo giorno di agosto segnò la caduta di Lucifero dai cieli, e il nome di quello che sarebbe diventato poi il diavolo rimanda proprio alla luce, al sole. Ma Lughnasadh non era solo festa solare: infatti, in origine era associata alla morte di Tailtiu, madre adottiva di Lugh. Appare piuttosto evidente lo stretto legame tra la morte della dea del grano, falciata dai contadini, e le celebrazioni in onore del figlio divino – il chicco di grano, simbolo solare – seme della speranza per il nuovo ciclo agricolo che verrà. L’antica devozione per la dea fu soppiantata in epoca patriarcale da quella per il dio, ma rimangono e sopravvivono le tracce del periodo più arcaico. Curiosa e interessante è pure la somiglianza di Tailtiu e Lugh con la Vergine Maria e Gesù Cristo, soprattutto in vista della grande festa cristiana dedicata alla Madonna proprio in questo mese.

Ad agosto giungono a maturazione le nocciole e il 5 principia il mese dedicato proprio al Nocciolo secondo il calendario arboricolo Ogham dei Celti. Il frutto di questo albero simboleggia la saggezza interiore e la conoscenza. Si dice che sostando sotto le sue fronde sia possibile ricevere ispirazione artistica. E’ simbolo di fertilità e fecondità associato alla Grande Madre e sono proprio i rami di questa pianta a essere usati dai rabdomanti; per questo si racconta che aiutino a rivelare ciò che è nascosto.

Il passaggio delle Perseidi nei cieli raggiunge il suo culmine intorno al 10 agosto, San Lorenzo, “la notte dei desideri”. Desiderare, dal latino “de-sidera”, significa letteralmente “distanza dalle stelle”. Curioso come una semplice parola appaia contraria al significato che le attribuiamo. Eppure Il desiderio ci allontana effettivamente dalle “stelle”, da ciò che vorremmo veder brillare nella nostra vita. Desiderare significa in qualche modo porsi in una condizione di attesa, aspettativa, speranza, le quali non ci porteranno a ottenere quel che vogliamo, ma solo ed esclusivamente ciò che siamo in quel momento: attesa, aspettativa e speranza.
Io oso, io posso, io voglio: sono questi gli ingredienti di colui che è “con le stelle”, perché egli si con-sidera parte del cielo cupo della notte e della luce degli astri, non cerca al di fuori di sé ciò che sa di avere dentro. Egli si ordina un cambiamento, chiede a se stesso ciò che vuole, perché lui è il Tutto e il Tutto è dentro di lui. Ecco perché per la sera dedicata all’avvistamento di stelle cadenti l’augurio dovrebbe essere quello di cogliete l’occasione per con-siderarci parte di quell’Universo che spesso releghiamo alla volta di un cielo distante da noi, proprio come i nostri lontani antenati che vivevano in comunione con la terra, il cosmo e gli elementi.

Tante sono le celebrazioni del periodo dedicate alle dee, e non è un caso che, per l’appunto, per la cristianità il 15 agosto sia il giorno dell’Assunzione della Vergine Maria. Il vicino Oriente in questo periodo, prima dell’istituzione della festa cristiana, celebrava una Grande Madre, la dea Atargatis.

ORIENS no Twitter: "La #Sirena Derceto (Atargatis): Fue una diosa ...

Ella aveva il corpo per metà di donna e per metà di pesce, ed era la patrona della fertilità e dei lavori campestri. Questa associazione apparentemente strana tra l’animale acquatico e gli attributi della divinità femminile non deve stupire: acqua, pesci e reti, come ipotizzò la Gimbutas, erano considerati fin dalle civiltà preistoriche simboli della Dea Madre e della terra che rappresentava il suo corpo. La forma a mandorla del pesce, inoltre, richiama la vesica piscis, facilmente accostabile alla vagina femminile, la porta della vita. Con il processo di evangelizzazione dei primi secoli dalla nascita di Cristo, le qualità di protettrice delle attività agricole di Atargatis furono trasferite alla Vergine. A dimostrarlo è il fatto che ancora oggi in alcune zone dell’Armenia pare si benedicano all’Assunta i grappoli d’uva.

In questo mese si collocavano pure le celebrazioni dedicate alle dea Salus, identificata talvolta con Igea, figlia di Asclepio, il dio della medicina. E’ curioso anche in questo caso notare come il simbolo del caduceo, associato proprio all’ordine dei medici e dei farmacisti, derivi da tempi pre-greci e proprio da Igea/Salus, che veniva raffigurata insieme a due serpenti intrecciati. Salus, come indica il suo nome, è dea della salute, perfettamente consona al periodo di pienezza e abbondanza in cui ci troviamo.

10 Hygiea: 170 anni fa la dea greca della salute diventava un ...
Statua di Igea. Foto tratta da https://eklettico.altervista.org/

La sfilata di festeggiamenti connessi a divinità femminili prosegue con Venere, celebrata nel suo aspetto campestre come prefiguratrice della prossima vendemmia. Anche Iside, Dea Madre dell’antico Egitto assai venerata pure dai Romani, era protagonista di feste e tradizioni che ne richiamavano i poteri.

La tradizione mediterranea vuole che in questo mese sia più facile scorgere Pan e le ninfe danzare nei boschi. A metà del mese cadevano le feste dedicate a Diana Nemorensis e a Giunone Lucina, quest’ultima richiamata come protettrice delle partorienti. Secondo Frazer, la Diana delle selve si univa in uno sposalizio sacro al Re di Nemi e la ricorrenza era celebrata con riti estatici. Il mese si concludeva con le celebrazioni della dea del raccolto e dell’abbondanza agricola, che portava il nome di Openconsiva. Questa divinità – in origine conosciuta dai sabini come Consiva, poi col nome di Opi – era invocata per la protezione delle provviste nei granai.

Tornando invece alle divinità maschili, i giorni centrali del mese vedevano come protagonista il dio Virtumno, colui a cui spettava il compito di trasformare ciclicamente le stagioni. A lui si doveva la maturazione dei frutti, come scrive Properzio. Altro dio ricordato nel periodo era Portuno, divinità delle porte simile a Giano, che si festeggia invece a Gennaio. Torna, dunque, il concetto di varco temporale tra un ciclo che si conclude e uno che si apre, connesso in particolar modo al mondo agricolo e campestre, un tema che si ritrova anche nella ricorrenza romana del Mundus Patet, il 24 agosto.

Il Mundus Cereris – regno della dea Cerere/Demetra – era una fossa circolare che delimitava il confine tra il mondo dei vivi e quello dei defunti, ed era protagonista di culti misterici ed esoterici della tradizione romana. Tale cavità, situata nel santuario di Cerere, restava chiusa tutto l’anno ad eccezione di tre date (24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre), quando la pietra che la copriva veniva sollevata per mettere in collegamento i due mondi. Sappiamo poco dei riti che vi si svolgevano, ma ci è stato tramandato che durante l’apertura del mundus (Mundus Patet), era proibito svolgere attività pubbliche, come combattere guerre e contrarre matrimoni. Ad ogni modo torna la simbologia della Grande Madre dei primordi, colei che presiedeva il ciclo di vita-morte-rigenerazione grazie ai poteri elargiti dal suo utero e dalla sua sacra vulva.

Dopo il Solstizio d’Estate, avanza la metà discendente dell’anno e, con essa, crescono i riti connessi alla morte e all’introspezione, un carattere che si riflette nei temi del Mundus Patet. La natura stessa, come abbiamo visto, parla di discesa e decadimento, e lo fa usando il linguaggio che le è più consono. In questo periodo, infatti, col suo verso udibile dal nostro orecchio, si alza in volo nelle ore crepuscolari l‘Acherontia atropos, anche conosciuta come Sfinge Testa di Morto, una falena che presenta sul dorso una macchia che ricorda la forma del teschio umano.

IL GRIDO DELLA FARFALLA | STERPAGLIE
Acherontia atropos. Foto tratta da https://sterpaglie.wordpress.com/

Ovviamente questa caratteristica ha fatto nascere leggende e superstizioni sul suo conto, che la interpretano come presagio nefasto. Una fama perpetuata anche dall’altisonante nome scientifico dal sapore squisitamente mitologico affibbiatole da Linneo nel 1758. Richiama infatti l’Acheronte, fiume che secondo la tradizione greca era solcato dalla barca di Caronte – traghettatore di anime dal regno dei vivi a quello dei defunti -, e presenta un chiaro riferimento anche ad Atropo, la terza delle tre Parche, colei che recideva il filo della vita umana decretando la morte.

Agosto, infine, è il mese in cui principia il segno zodiacale della Vergine, governato da Mercurio. La terra di questo periodo rispecchia la verginità – l’integrità – del segno zodiacale che domina i cieli, poiché dopo il ciclo agricolo concluso è pronta a ricevere il nuovo seme. Chi è nato sotto questo segno, ama la disciplina e il controllo, è parsimonioso e tende ad accumulare, ma si contraddistingue anche per la serietà, la riservatezza, e lo scetticismo.

How To Understand Virgo Energy And The Element Of Earth. | by ...
Attribuzione immagine sconosciuta.

Il mese di agosto, dunque, ha in se un’abbondanza di temi ed energie con le quali dovremmo imparare a riallinearci, distinguendole in primis dentro di noi. Al pari della terra, venerata nel mondo antico sotto forma delle dee analizzate nel presente articolo, in questo periodo in noi muore qualcosa e ciò crea spazio vuoto uterino per il seme che verrà, quello che germoglierà la prossima Primavera. Così come nel sanguinamento mestruale l’utero espelle la cellula uovo non fecondata e si prepara a un nuovo ciclo, agosto purifica, prepara il campo della nostra interiorità affinché nuovi chicchi di grano possano trovarvi dimora. E il grano è nutrimento, figlio della terra, del cielo e del sole. Cerchiamolo in noi, quel nutrimento. Piantiamolo metaforicamente affinché cresca e s’innalzi, e noi con esso fino a un nuovo giro di ruota.

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La voce del Creato

“Sai cantare come cantan le montagne?” (dal film d’animazione Disney, Pocahontas)


Ogni cosa esistente possiede una voce. Sai ascoltare la tua? Sai sentire quella di tutto il Creato?

Non mi riferisco a una voce fisica, udibile attraverso le orecchie, ma a quella che invece ogni fibra del tuo essere può avvertire, captare in ogni momento della giornata. In natura è più facile sintonizzarsi sulla giusta frequenza e provare sensazioni differenti e insolite, ma ciò non significa che tu non possa trovare e sperimentare la stessa dimensione anche in un ambito più cittadino e antropizzato.

Per facilitarti un po’ le cose, però, inizia dal bosco, da una radura, da una polla d’acqua limpida.

Cammina in silenzio e abbandonati completamente a quello che avverti dentro e fuori di te, senza freni. Le prime volte è difficile, potrebbe addirittura spaventarti, perché le sensazioni che salgono al cuore non sono sempre positive, ma prova a comprendere che nulla può farti del male.

Assapora sotto la pelle delle dita la corteccia degli alberi. Sentila con tutto il tuo essere. Siete pelle contro pelle. Posa i tuoi passi sulla terra con lentezza, come se la stessi accarezzando. Mescola le tue cellule con quelle dei torrenti, diventa consapevole di quello che sei, di essere parte di quel mondo, non semplice spettatore/spettatrice. Sei parte di esso perché tu sei movimento, suono, vibrazione, esattamente come tutto il Creato, ed è quella vibrazione che devi abituarti a sentire, è con le onde sonore della natura che devi imparare a entrare in risonanza.

Quante volte, leggendo libri di spiritualità, mi sono imbattuta in capitoli che parlavano dell’offrire qualcosa agli spiriti dei luoghi… Si parla per lo più di libagioni, di cibi o di erbe, ma non si pensa mai alla cosa più semplice che abbiamo da offrire (perché l’offerta, sì, è sempre importante; il dare e il prendere in uno scambio ciclico continuo): la nostra stessa vibrazione, la nostra personale energia, che è fatta del movimento del sangue nelle vene, della pulsazione continua e impercettibile di tutti i nostri tessuti, degli impulsi cerebrali, dello spostamento dell’aria provocato dai movimenti del nostro corpo, del battito costante del nostro cuore, del ritmo e del ciclo del respiro, delle emozioni che proviamo.

Può sembrare apparentemente banale, ma non lo è affatto, in un mondo che non ha occhi e orecchie come le nostre, ma percepisce ogni cosa attraverso la vibrazione, per l’appunto.

Portiamo sempre la nostra energia in ogni luogo in cui andiamo e negli ambienti che attraversiamo e, allo stesso modo, la raccogliamo. Possiamo essere più o meno consapevoli di questo, ma accade comunque, che lo vogliamo o no. Tuttavia, c’è una cosa preziosa che, invece, potremmo donare, offrire consapevolmente e intenzionalmente: il nostro Amore, il potente campo energetico del nostro cuore.

Quando sei nel bosco, su un prato, sulle rive di un ruscello o del mare, cammina con l’Amore nel cuore, portando la tua energia come il più bello dei doni, proprio come quando vai a casa di un amico e ti presenti con un dolce o una bottiglia di vino. Sii quel regalo, dona un brivido fatto dei fremiti della tua Anima, delle frequenze del tuo cuore al luogo in cui ti trovi.

Tu sei suono e suono è pure ciò che ti circonda. Sintonizzati sulla frequenza del bosco, delle montagne, del fiume… e canta la loro stessa canzone che è fatta di Vita e d’Amore.

Come ho già spiegato nel mio vecchio articolo Fitoterapia energetica, memoria dell’acqua e pensiero positivo, volgere questo canto amorevole a ciò che ci circonda è assai importante, soprattutto quando siamo vicino all’acqua (o immersi in essa), o quando veniamo a contatto con questo elemento e con esseri viventi che sono formati da una percentuale di acqua, come piante e animali.

Puoi benedire ciò con cui vieni in contatto sia con il pensiero che con la parola, ma se vuoi, puoi cantare davvero. Non serve che tu abbia una voce melodiosa, purché in te esista il giusto intento. Canta al fiume il tuo Amore. Sii il battito della terra, il frusciare delle foglie, il pulsare della Vita intera. Le tue benedizioni e il tuo intento daranno una scossa energetica positiva a tutto ciò che ti circonda, investendo ogni cosa. Ancora non sai quanto di tutto questo ti verrà restituito, né sotto quale forma, ma i doni che riceverai in cambio del tuo suono interiore e della tua personale voce saranno sempre colmi di stupore, gratitudine e meraviglia.

Ci sono canti e mantra che sono stati creati specificamente per questo scopo e che hanno aiutato a guarire e risanare acque particolarmente inquinate, come è stato dimostrato da diversi studi scientifici. Uno di questi, “La Grande Invocazione”, – che ti lascio qui di seguito – fu ideato per la guarigione delle acque planetarie ed è stato utilizzato per risanare le acque colpite dal recente disastro nucleare giapponese, con sensibili miglioramenti nei valori radioattivi dell’oceano.

Personalmente, sono pratiche ormai consolidate in me, le attuo spesso in Natura, per questo te ne parlo. Quando questo accade, con certi luoghi si instaura un rapporto particolare, oserei dire quasi di fiducia reciproca, poiché l’energia che vi portiamo viene riconosciuta come benefica. In quel momento è un po’ come se le cortecce degli alberi si rilassassero e le foglie sui rami non stessero sull’attenti. Ghiandaie, corvi e cornacchie, che sono le sentinelle per antonomasia del regno naturale, tacciono nonostante la nostra presenza, quasi che, per l’appunto, non vedessero in noi una minaccia. Accade, anche se quelle che ho appena elencato sono percezioni del tutto umane della realtà, sentimenti che la Natura non può provare, perché essa non possiede il nostro giudizio né il calcolo tipico delle nostre menti.

Ci sono diversi posti in cui ho sviluppato questo genere di rapporto. In essi mi piace tornare in punta di piedi, prendendomi tutto il tempo necessario. E in uno di questi, in particolare, torno per le sue acque di cui avverto la potenza e la sacralità.

Ogni passo che compio è un rituale di ricongiungimento, ogni metro percorso è un metro in meno dal torrente, dove so che sarò accolta con un intimo e segreto “Bentornata”. E pare che la Natura faccia i fuochi d’artificio ogni volta che ci torno: il sentiero è sempre differente, deviato per piccoli smottamenti, e la vegetazione sembra essere sempre diversa dalle volte precedenti, più bella, più vivida, quasi a dire “Eccoti, finalmente!”.


Ho un rapporto assai particolare con questo ruscello, il suo ponte e le sue rocce, perché il Genius Loci che li abita ormai mi riconosce e, con un linguaggio che non è fatto di parole ma di vento, scrosci, ronzii e movimento, ci intendiamo. In silenzio.

E sempre nel silenzio io dono a questo scampolo di mondo ciò che sono, e sempre mi rimanda indietro ciò che emano in modi tanto potenti e inaspettati da lasciarmi traboccante di quella meraviglia di cui sono colmi i bambini.

In questi luoghi mi rendo conto un po’ di più che non è vero che siamo (solo) esseri umani.
Siamo antenne.
Siamo stelle.
Siamo esseri divini e divine bacchette dalle grandiose potenzialità. Quando finalmente ce ne accorgiamo, il Creato esulta e noi con lui.
Qualcuno lo sta già facendo e il canto sta diventando un coro.
E tu? Lo senti?

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“Ovunque intorno a te ci sono spiriti, bambina. Vivono nella terra, nell’acqua, nel cielo. Se li ascolti, loro ti guideranno. Chiudi gli occhi e vai, il tuo cuore sa e tu capirai. Fatti trasportate come l’onda fa col mare: il tuo cuore sa e tu capirai.” (Nonna Salice, Pocahontas)

Iniziazioni nel folto degli alberi. Riti estatici arcaici all’eremo di Santa Maria Maddalena del Bosco, a Taggia.

Popoli e civiltà antiche hanno fatto del folto degli alberi  uno spazio sacro e inviolabile, protagonista di riti, celebrazioni e iniziazioni che oggi non ricordiamo più. La Valle Argentina, per il suo territorio spesso scosceso e di difficile frequentazione, conserva esempi di foreste secolari, abitate talvolta da alberi monumentali visitati ancora oggi da curiosi e da chi rende loro un grazie sentito e commosso. Ci sono macchie arboree su cui si raccontano leggende di gnomi, di fate e di bàzue (streghe),storie di madonne, di soldati, di santi ed eremiti. Uno di questi centri pulsanti di energie, leggende e tradizioni si trova sulle alture di Taggia, nel bel mezzo di una vegetazione fitta, impenetrabile e disordinata, quasi che il mondo verde voglia disorientare il visitatore, depistarlo, confonderlo. Ad accrescere la magia e la sacralità del luogo sono una fonte d’acqua sorgiva e una cavità rocciosa dalle proprietà taumaturgiche.

I boschi dell’Albareo e del Neveia sono così intricati e aggrovigliati che è quasi impossibile distinguere le piante che lo costituiscono. Formano un tutt’uno, una barriera compatta e nodosa di linfa e corteccia che preserva quella dimensione sacra. Eppure, proprio nel folto di quell’intrico vegetale sorge un complesso religioso, centro nevralgico di usanze arcaiche perpetuate nel tempo e sopravvissute fino ai giorni nostri: l’eremo di Santa Maria Maddalena del Bosco. Persino oggi vi si celebrano feste estatiche che seguono una ritualità specifica dalle forti e profonde valenze simboliche ed esoteriche. È un crogiolo in cui si agglutinano sacro e profano, vecchio e nuovo, storia e leggende, cristianesimo e culti preesistenti.

Un primo sguardo alla leggenda.

Quella di Maria Maddalena è una figura affascinante, che nei secoli ha fatto nascere intorno a sé una profusione di storie, miti, leggende e supposizioni. Lei, che secondo i vangeli apocrifi fu la più cara a Gesù tra gli apostoli, ebbe un’importanza rilevante e indubbia, quasi atipica per il contesto cristiano in cui si diffuse la sua storia. Narra la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine che, dopo la resurrezione di Cristo, Maria Maddalena fu posta dagli infedeli su un’imbarcazione priva di remi e sbarcò miracolosamente sulle coste di Marsiglia. Si trasferì poi nei pressi di Aix-en-Provence stando a una prima versione, mentre un’interpretazione del XII secolo d. C. la vorrebbe presente a Saint-Maximin. Qui, sulle alture di Saint-Baume, rimase fino alla fine dei suoi giorni, dimorando in una grotta che ancora oggi è visitata dai fedeli.

Ü Bauzu della penitente o Garbu da Lena

Un’altra leggenda, tuttavia, vuole che prima di stabilirsi in Provenza, ella abbia trascorso una parte della sua vita proprio sulle alture della Valle Argentina. Qui avrebbe trovato una cavità rocciosa naturale, da lei utilizzata per espiare i suoi peccati trascorrendo le giornate inginocchiata, tanto che ancora oggi pare si riconoscano i solchi delle sue ginocchia nella dura pietra. Qualche volta sulle due conche da lei scavate in quello che è conosciuto come Ü Bauzu della penitente o Garbu da Lena la gente pone ancora mazzi di fiori freschi.

L’eremo tra storia, espressioni del sacro e tradizioni profane.

Grande è la commistione di riti e suggestioni antichi avviluppata alla storia cristiana del luogo, tanto che, al pari dell’intrico arboreo in cui si trova, è ormai difficile distinguerne con precisione le origini. Volendo passare al setaccio l’intreccio storico e folklorico che circonda il romitorio, la traccia più significativa e maggiormente conosciuta è senza ombra di dubbio quella offerta dal culto cristiano, ma non è l’unica, come vedremo.

L’edificio religioso originario, di cui oggi restano poche testimonianze, sorse prima dell’anno Mille, nel IX secolo, probabilmente intitolato a San Benedetto, poiché fu costruito per volere dei benedettini. Secoli dopo la loro partenza, l’eremo passò ai frati domenicani e a loro rimase fino al 1716, quando nacque la Compagnia di Santa Maria Maddalena alla quale la proprietà appartiene ancora oggi.

La dedicazione dell’eremo derivò con ogni probabilità dai rapporti che, in epoca medievale, la Liguria strinse con la vicina Provenza, dovuti per lo più a legami commerciali. Incuriosisce la totale assenza di reliquie, ma le istituzioni ecclesiastiche dell’epoca posero rimedio a una tale mancanza. Infatti, ad avvalorare la leggenda del passaggio di Maria Maddalena in questo bosco è la presenza di un piccolo anfratto naturale, somigliante più a una tana che a una grotta. Essa è dotata di due aperture, una d’ingresso e una di uscita; per attraversarla, si striscia carponi, poggiando il ventre su quelle sacre rocce che da sempre si dice curino e proteggano dalle malattie e dai problemi legati alla zona ventrale, divenute protagoniste di riti apotropaici che, con ogni probabilità, originano in tempi ben più antichi di quelli della costruzione dell’eremo. Il sito religioso, inoltre, non a caso sorge proprio nel luogo intermedio tra il taumaturgico Garbu da Lena e la miracolosa sorgente.

La cappella dell’eremo

Gli ampi spazi antistanti la cappella sono stati ricavati in epoche più recenti per accogliere i numerosi visitatori durante la grande festa che si celebra ogni anno in onore di Maria Maddalena la domenica che segue il giorno che fu della sua nascita, il 22 luglio. Tavoli, panche e portici possono ospitare fino a cinquecento persone, le quali raggiungono l’eremo per assistere al celebre Ballo della Morte che qui si ripete tale e quale da ben più di tre secoli.

La Compagnia di Santa Maria Maddalena, la festa tradizionale e il Ballo della Morte, echi di un remoto passato.

La Compagnia di Santa Maria Maddalena, o Società dei Maddalenanti, fu costituita con un atto notarile nel luglio del 1706, sebbene ci siano testimonianze della sua esistenza già settanta anni prima. Dall’atto costitutivo si evince la comprovata passione e la grande devozione di tale società per l’eremo e per la Santa, ma anche per il giocondo spirito di fratellanza che ne univa i membri. Trapela, inoltre, un dato importante: si attesta che già molti anni prima della stipula dell’atto un gruppo di persone si riuniva nel bosco nel mese di luglio[1]. Come fa notare anche l’antropologo Paolo Giardelli, la prima firma che compare in calce a tale documento appartiene a un rappresentate del clero, il che fa intuire il tentativo delle istituzioni ecclesiastiche di unire sotto il vessillo cristiano riti, usanze e celebrazioni antiche assai sentite. La festa, infatti, come testimonia un documento ufficiale, era già presente nel 1381.

Il regolamento prevede che i componenti della Compagnia debbano essere unicamente di sesso maschile e nati a Taggia. Il Contestabile e il Vice Contestabile, che presiedono la festa, sono eletti ogni anno e solo dal 1936 alle due figure maschili si affiancano quelle femminili della Contestabile e della Vice Contestabile.

Il sabato che precede la festa, i Maddalenanti, in sella a cavalli o a muli, si riversano nelle vie cittadine esortati dai tradizionali scoppi di mortaretto. Dal centro abitato di Taggia, percorrono circa 11 chilometri per giungere all’eremo, dove li aspetta una cena che oggi è ricca e abbondante, ma un tempo consisteva in piatti poveri tipici della vita campestre. Trascorrono la notte sotto le fronde degli alberi, qualcuno dice addirittura che un tempo dormissero su foglie di felce, alle quali si attribuivano doti profetiche oniriche. Tuttavia, dormire è quasi impossibile per il clima di festa, allegria ed ebbrezza che si respira negli spiazzi che circondano la chiesa. Tra canti, bevute e burle tipici dei baccanali e dei riti carnascialeschi, la notte trascorre e giunge presto il giorno, che oggi porta con sé le donne, i bambini e gli altri paesani, giunti per unirsi ai festeggiamenti.

Si pranza tutti insieme sulle lunghe e accoglienti tavolate. Un tempo sui tavoli erano disposte foglie di castagno[2] a guisa di tovaglia, ma oggi come allora sono imbandite come se ospitassero un banchetto tra nobili invitati dove anche il vino scorre copioso.

Dopo aver condiviso il banchetto, giunge il momento culminante delle celebrazioni, quello più atteso: il Ballo della Morte. Due Maddalenanti – rigorosamente uomini – interpretano u Masciu e a Lena (il maschio e la Maddalena), inscenando una danza di arcaica rimembranza.

Il ballo consiste in un allegro inseguimento reciproco: dapprima è u Masciu a cercare a Lena, che però lo rifiuta, poi i ruoli s’invertono. Si corteggiano accompagnati dai canti e dalla musica, finché a Lena si accascia a terra e lì giace con gli arti distesi a formare una stella. U Masciu tenta invano di rianimarla, scuotendola in atteggiamento di estremo sconforto, finché si china fra le sue cosce e le sfrega con frenesia il ventre e il petto con un fascio di lavanda. Il tempo pare fermarsi, sospeso come il fiato degli astanti, nonostante tutto si ripeta ogni anno in modo identico da secoli. E, all’improvviso, a Lena balza letteralmente in piedi nella gioia ritrovata di tutti i partecipanti, che per l’euforia lanciano addosso alla coppia nuovamente danzante mazzi di lavanda profumata.

Terminate le danze, la Compagnia si rimette in cammino per proseguire i festeggiamenti estatici in paese e ripetere il Ballo della Morte altre due volte. Tuttavia, prima di partire, ognuno assembla il proprio Agrifoglio, il tradizionale bastone dei Maddalenanti, ricavato da una ramo di castagno e alla cui sommità sono legate spighe di lavanda. Il bastone del Contestabile, invece, è più ricco: vi si appendono pani, salami e altri simboli di abbondanza emblematici del suo ruolo nella gerarchia.

Un groviglio inestricabile di simboli e celebrazioni antichi.

Cosa racconta la toponomastica.

A rivestire una notevole importanza è già il luogo in cui si trova l’eremo, un bosco, ma non solo. L’oronimo del vicino Albareo, infatti, può offrire dei primi indizi circa il passato della zona. La radice preindoeuropea alb/alp– infatti, indicherebbe un insediamento, una città sorta in prossimità dell’acqua, elemento che qui di certo non manca. Si tratta inoltre di un luogo già frequentato in tempi assai remoti, se si pensa che dirimpetto all’Albareo e al Neveia si trovano il Monte Faudo e la sua  Tana Bertrand, grotta sepolcrale usata già in ambito preistorico (a tal proposito, puoi leggere anche il mio articolo “Riti sepolcrali preistorici in Valle Argentina – Nel ventre della Grande Madre“). Tuttavia, secondo alcuni, l’oronimo avrebbe la stessa radice dei termini in ligure antico arba e arbinà, rispettivamente l’ape – ma anche l’insediamento per i Liguri – e l’alveare, la città delle api. Pare, infatti, che le popolazioni preromane che abitavano la zona fossero particolarmente legate alla struttura sociale di questi insetti, tanto da considerarli animali totemici dei loro clan.

Uno sguardo al periodo dell’anno: la canicola e i suoi riti apotropaici.

Tutto, dunque, farebbe pensare che i riti e i simboli presenti in questo bosco e nell’eremo non siano un semplice appannaggio cristiano, ma abbiano in verità radici ben più remote. Lo confermerebbe anche il periodo dell’anno in cui si colloca la festa, quello della canicola, che per i popoli di un tempo assumeva grande importanza ed era celebrato con riti irrinunciabili. La canicola deve il suo nome alla stella Sirio, protagonista dei cieli del periodo, facente parte della costellazione del Canis Major. Era assai importante per gli Egizi, poiché Sirio dava inizio alla benefica inondazione del Nilo. Quello della canicola, tuttavia, è da sempre ritenuto uno dei momenti più pericolosi dell’anno agricolo. Il sorgere di Sirio, infatti, porta con sé un drastico innalzamento delle temperature, un evento che poteva arrecare grave danno alle colture.

Ed ecco, allora, sorgere riti apotropaici per scongiurare il peggio e ingraziarsi non solo un ottimo raccolto, ma anche un inizio propizio della nuova stagione agricola. La canicola, dunque, si trova esattamente in uno di quei momenti di passaggio cari alla tradizione sciamanica, un delicato lasso di tempo in cui non solo si chiude un ciclo e se ne apre un altro, ma in cui coesistono tutte le potenzialità: la vita e la morte, il successo e la rovina, l’abbondanza e la carestia.

Non sorprende, dunque, che la festa di Santa Maria Maddalena del Bosco si svolga sulla falsariga di un carnevale, parola la cui possibile etimologia può essere ritrovata in carni levamen, ovvero “sollievo per la carne”: come per i mesi di gennaio e febbraio, per stemperare le difficoltà del periodo canicolare si celebravano feste estatiche che celano un profondo significato esoterico che procede a braccetto con la magia simpatica: secondo il principio per cui “il simile attira il simile”, infatti, mostrando atteggiamenti di euforia, celebrare unioni tra i due sessi e non lesinando cibo e denaro, si attirerebbero per simpatia – per similitudine – futuri motivi per cui gioire, gioia che nel mondo antico coincideva per lo più con la fertilità della terra e dei grembi femminili (umani e animali), l’abbondanza sulle tavole e la ricchezza nelle tasche.

In questi momenti tanto delicati, si credeva che gli spiriti potessero interferire con il mondo dei vivi, da qui l’esigenza di esorcizzare le paure e di allontanare il male, compito affidato alla lavanda. A proposito di questa pianta officinale, essa è stata assurta simbolo della festa per la sua somiglianza con la spiga di grano, ma anche per i già citati rapporti con la vicina Provenza. La lavanda era un bene costoso che nei giorni di celebrazione dedicati alla Maddalena non poteva mancare né scarseggiare. Il suo prezzo elevato, che la gente era pronta e disposta  a sostenere, richiama i sacrifici rituali che si svolgevano nel mondo antico e ha un profondo significato esoterico sempre riconducibile al principio di similarità di cui si è parlato. Tra le numerose virtù associate alla lavanda in ambito magico-popolare ci sono per l’appunto la protezione dalle disgrazie, dal malocchio e da demoni e streghe, caratteristiche che la rendevano assai adatta ad allontanare i pericoli dettati dalla canicola.

In ambito più arcaico, soprattutto preistorico, ci si appellava a un’unica energia divina per scongiurare il peggio: la Grande Madre, colei che è in tutte le cose, energia vitale e creativa, ma anche dispensatrice di morte. Nel territorio di Taggia, invece, in epoca cristiana tale funzione potrebbe essere stata assegnata a Maria Maddalena, alla quale si chiedeva di ammansire la forza distruttrice del fuoco canicolare. E Maddalena, secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, era di nobili natali, figlia di Syrus, la cui assonanza con la stella del Canis Major appare piuttosto evidente.

In ogni elemento delle celebrazioni di Santa Maria Maddalena del Bosco si ritrovano forti e interessanti analogie con il carnevale e il pensiero magico antico legato alla canicola. Gli spari dei mortaretti, i canti e il chiasso con cui i Maddalenanti danno inizio alla festa il giorno della vigilia, insieme all’euforia che caratterizza l’intero evento, rimandano alla magia simpatica. Anche l’atto di strisciare il ventre contro le rocce della grotta rimanderebbe al motto esoterico “come dentro, così fuori”[3]: rendere fertile il proprio ventre significava propiziare anche quello della terra e viceversa, in uno scambio perpetuo di energie che auspicavano ad attrarre abbondanza, fecondità e vitalità. La fessura del pertugio è stretta e per entrarvi, passarvi attraverso e uscirvi bisogna strisciare, poggiare il ventre sulle rocce antiche[4].

U Garbu da Lena

Si emerge dalla cavità come partoriti dal grembo materno e passando dalla vulva, con un forte richiamo a culti e credenze ancestrali. Nei gesti compiuti ripetutamente nel Garbu da Lena riecheggiano antichi riti di iniziazione, volti a purificarsi da ciò che si è stati per accogliere e abbracciare in toto il proprio nuovo essere. Lo stesso si può dire dell’euforia e dell’estasi espresse dalla festa: era di fondamentale importanza avere con sé le giuste frequenze per prepararsi alla parte discendente dell’anno, cominciata con il Solstizio d’Estate.

L’elemento femminile: Maria Maddalena come Iside e Diana.

La statua originaria che ornava la cappella dell’eremo fu trafugata nel 1936 ed era di carnagione scura, un dato che accende una stella fissa nel firmamento di quelli che potevano essere i culti preesistenti in loco.

L’attuale statua di S. Maria Maddalena posta nella chiesa dell’eremo. Foto di Manuel Garibaldi tratta da francoboggero.it

Infatti, apre le porte di un’interpretazione tutt’altro che infondata riguardo il collegamento di Maria Maddalena con il culto delle Vergini Nere, ma anche con le più antiche Diana/Artemide e Iside. Quello delle Madonne Nere fu un culto diffusosi sul finire del IX secolo d.C., periodo che coincide, per altro, con la costruzione dell’eremo da parte dei benedettini. Eppure, come il sistema cristiano di credenze di cui fa parte, ha radici che affondano in un terreno ben più antico. Vergini Nere erano spesso presenti nei monasteri benedettini e là dove sorgevano tali edifici si attestano culti preesistenti legati alla romana Diana, ma soprattutto a Iside, il cui culto, pur essendo di origine egizia, era assai sentito in Italia, soprattutto nel centro-sud, e fu portato nella Gallia Cisalpina – di cui anche l’odierna Liguria fa parte – proprio dai Romani in epoca imperiale. Nel culto isiaco si esplicherebbe anche la collocazione della festa nel periodo canicolare, assai sacro al mondo egizio, come si è visto. Sirio, infatti, era stella consacrata a Iside, dea madre connessa con la maternità e la fertilità, patrona degli alberi sacri nonché signora di unguenti e magie, ha molto in comune con la figura di Maria Maddalena. C’è chi sostiene che ella sia stata in verità una sacerdotessa della tradizione isiaca, praticante della sessualità sacra e dei riti ierogamici – le nozze sacre – che trovano riscontro nella simbologia del Ballo della Morte, come vedremo a breve.

Maria Maddalena in estasi, Artemisia Gentileschi

Potrà sembrare difficile credere che Iside – o una sua corrispettiva – fosse venerata sulle alture della Liguria di Ponente, ben più comprensibile e, forse, credibile risulterebbe un culto alla romana Diana, sicuramente di più semplice dimostrazione.

Delle Vergini Nere sappiamo anche che esse venivano spesso collocate e venerate in cripte ipogee in prossimità di pozzi sacri o corsi d’acqua. Apparivano anche in luoghi in cui vi era la presenza di un albero sacro e un megalite, elementi che, come abbiamo visto, si ritrovano dove sorge l’eremo di Maria Maddalena del Bosco, ma anche nei culti di Diana e Artemide. Tante, a ben guardare, sono le assonanze e le somiglianze tra queste due figure femminili che ricevettero offerte e preghiere in diversi luoghi del Mediterraneo.

Diana, dea delle foreste e protettrice del grembo materno e del parto, si sarebbe trovata di certo a suo agio nel bosco in cui è sorto il luogo di culto dedicato a Maria Maddalena. Era altresì matrona delle montagne, delle pietre e delle acque, signora della natura libera, colei che schiude l’utero. Difficile ignorare il potente collegamento con la presenza della grotta e della sorgente proprio nei pressi dell’eremo, pertugio che non solo rimanda alla fertilità e al grembo materno di cui Diana era protettrice, ma offre rimembranze anche dell’Artemide minoica e della mediterranea Potnia Theron – Signora degli Animali –  venerate  per l’appunto nelle grotte.

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Diana, Jules Joseph Lefebvre 1879

Tra i simboli della dea c’è anche l’ape e pare che l’organizzazione dei santuari di epoca classica si ispirasse proprio agli alveari, analogia curiosa, questa, se si considera l’oronimo del vicino Albareo di cui abbiamo già trattato.

La verginità di Diana era proverbiale, e in epoca cristiana lo erano altrettanto i facili costumi di Maria Maddalena che le valsero gli epiteti di peccatrice e penitente. Forse, però, anche in questo si può ravvisare una somiglianza tra le due, poiché il significato più arcaico della verginità, accostato a dee come Diana, è stato travisato dal cristianesimo che ne ha modificato il senso più autentico. Vergine, nel mondo antico, era colei che non si privava dei rapporti sessuali, ma restava libera da legami, integra e completa in se stessa. L’unione con l’uomo avveniva per lo più in ambito rituale, avendo cura di mantenere intatta la sacra energia racchiusa nella vulva, per non disperderla e non offrirla a coloro che ne erano indegni. Un simile assunto non era concepibile né condivisibile per la chiesa dei primordi, ed ecco che la verginità fu trasformata. Anche la figura di Maddalena che, come abbiamo visto, è stata associata al culto misterico isiaco, potrebbe essere stata una vergine nel senso originario del termine.

Tuttavia, le assonanze con Diana non finiscono qui. Com’è risaputo, secondo il calendario cristiano Santa Maria Maddalena si celebra il 22 luglio. Nel mondo romano, invece, il 19 e il 21 luglio si festeggiavano i Lucaria, dedicati ai boschi sacri; una ricorrenza, questa, che fa porre l’attenzione sui riti antichi dell’eremo. Per i Romani, il Lucus era per l’appunto il bosco sacro abitato da un numen, un essere divino che era necessario ingraziarsi tramite offerte, che consistevano in libagioni, ma anche in canti o danze; inoltre, durante i Lucaria si consumavano cibi e bevande nei boschi, usanze che si ripetono come un ritornello nella festività taggiasca.

Non si può non citare in questa sede anche Diana Nemorensis, interessante ai fini di questa ricerca poiché ogni anno il suo sacerdote, considerato re del bosco di Nemi, celebrava la sua unione con la dea tramite uno sposalizio sacro che riecheggia nel Ballo della Morte dei Maddalenanti.

L’elemento maschile: l’Uomo Verde e Dioniso.

Tornando per un attimo alle Madonne Nere di cui si parlava poco fa, in ambito gotico erano spesso contornate da Green Men. L’Uomo Verde, caro alla tradizione celtica, ritrova la sua origine mediterranea nel corteo di satiri e spiriti silvani coi quali si accompagnava Diana. Era raffigurato con il volto coperto di foglie e un ramo che usciva dalle sue labbra spalancate ed era spirito primaverile che si univa tramite riti estatici alla terra scura, non prima di affrontare una profonda trasformazione che prevedeva la sua morte e la conseguente rinascita. Ancora una volta si ritrovano profonde somiglianze con i festeggiamenti dell’eremo di Santa Maria Maddalena del Bosco, ma anche un’innegabile affinità con i culti dionisiaci.

Interessante notare anche come una fontana del romitorio, seppur di recentissima realizzazione, richiami proprio il Green Man, a dimostrazione del fatto che certi simboli ritornino e richiamino le funzioni originarie del posto. L’energia dei luoghi è tanto forte da avere un’impronta che influenza ogni cosa l’attraversi; l’estasi e l’ispirazione artistiche non fanno che riprodurre un’idea che in qualche modo è già presente, la materializzano, perpetuando inconsapevolmente la funzione del sito.

Per quanto riguarda Dioniso, egli è famoso per la sua personificazione con la vite e con l’ebbrezza suscitata dal vino che si ricava dai frutti della pianta. È semplice trovare in questa divinità rimandi all’Osiride egizio e allo stesso Gesù. Molto del culto di Dioniso riecheggia nella festa taggiasca di Santa Maria Maddalena: l’immancabile vino, l’euforia delle celebrazioni, le danze sfrenate, ma anche la morte e la resurrezione. Tramite tali rituali si esorcizzava la paura della morte e si propiziava la vita della terra e degli animali cosicchè a un ciclo agricolo ormai concluso ne seguisse un altro migliore del precedente.

Interessante è la somiglianza dell’Agrifoglio, tradizionale bastone dei Maddalenanti, con il sacro Tirso dei culti dionisiaci, utilizzato non solo dal dio, ma anche da satiri e Menadi. Su entrambi i bastoni rituali, innegabili simboli fallici, erano appesi piante e oggetti, ma mentre nel Tirso si ha pure un riferimento non troppo velato alla ghiandola pineale, l’Agrifoglio termina con un elemento femminile, il mazzo di fiori di lavanda posto sulla sua sommità quasi a simboleggiare l’unione sessuale. La loro funzione, invece, resta simile: il Tirso è forza vitale divina elargita alla vegetazione, all’umanità e agli animali; l’Agrifoglio del Contestabile richiama la prosperità tornata a Taggia in seguito ai rituali silvani.

Baccante.

Il Ballo della Morte: l’unione di maschile e femminile nello hieros gamos.

Volendo addentrarci in profondità alla scoperta del Ballo della Morte, un’analogia interessante con il mondo che gravita intorno alla figura di Dioniso si incontra nelle figure dei Maddalenanti. Richiamano infatti le Baccanti, anche conosciute come Menadi, donne spesso identificate con dee che nell’Atene del V secolo a.C. decisero di abbandonare le città per seguire il richiamo del dio Dioniso. Un’eco di questa loro scelta di vita si riflette nella partenza dei Maddalenanti che si allontanano dal centro abitato di Taggia per trascorrere la notte nel bosco, nel clima di euforia tipico in cui vivevano immerse anche le Baccanti. Esse si rendevano spesso protagoniste di danze estatiche, là dove quest’arte non era da intendersi come la concepiamo oggi, ma come un atto rituale di profonda connessione con le energie divine, un modo per accedere all’estasi, liberare lo spirito e celebrare la vita.

Il ramo d'oro | illuminationschool
Ramo d’oro, William Turner

Il Ballo della Morte è danza degli opposti, un’allegoria del passaggio stagionale, ma anche vero e proprio rito agreste volto a sostenere la rinascita delle coltivazioni. Il grano e i frutti estivi venivano uccisi sotto la falce e il coltello, ma era di fondamentale importanza che da tale morte scaturisse nuovamente la vita. Ed ecco, dunque, comparire il motivo erotico, un riferimento all’atto sessuale capace di generare nuova, miracolosa vita. Nelle cerimonie dello hieros gamos, le nozze sacre nate in ambito mediterraneo, l’unione di due ierofanti dava spesso origine a un figlio simbolico, la spiga. E nel Ballo della Morte a Lena e u Masciu assumono gli atteggiamenti tipici del parto del figlio divino: a Lena si fa stella[5], a dimostrazione del suo essere connessa con la sacra scintilla vitale, ne diviene rappresentante, e u Masciu si pone fra le sue cosce, massaggiandole il ventre con spighe di lavanda, come se da quel grembo dovesse fuoriuscire davvero un nuovo essere vivente.

Un interessante connessione con le nozze sacre si ritrova proprio nella figura della Maddalena. I vangeli ci raccontano delle lacrime che pianse sui piedi di Gesù, mentre era intenta a ungerlo, e viene spesso raffigurata con il contenitore di unguento di nardo tra le mani[6]. Pare che in questo ci sia un richiamo a un rito preesistente occultato dal cristianesimo, rituale in cui la donna – sacerdotessa – rivestiva un ruolo di grande importanza. Ella, infatti, preparava l’uomo che diveniva protagonista insieme a lei della sacra unione sessuale, e lo faceva ungendo il capo, i genitali e i piedi di lui. Egli sarebbe diventato re, non prima, però, di essersi unito con la Grande Dea, personificata dalla sacerdotessa. Con questa sacra celebrazione simbolica, il re suggellava il suo stretto legame con la terra – la Dea – su cui avrebbe governato giurando di rispettarla.

Conclusioni.

Come si è tentato di ricostruire in questo studio, le commistioni di culti antichi presenti nella festa sono assai numerose e spesso stemperano l’una nell’altra, proprio come gli alberi e gli arbusti che costituiscono il bosco in cui si svolge. Forse non sapremo mai con certezza quali divinità si venerassero sotto quelle fronde prima della costruzione dell’eremo, né avremo la sicurezza che lì fosse presente un nemeton. Ciò che resta più tangibile e più vicino alla nostra comprensione, invece, è che il passato e il presente si riflettono l’uno nell’altro, così come l’ambiente rispecchia le energie che lo governano e che lo abitano da sempre.

L’essere umano è affascinato del sacro al quale di fatto appartiene, nonostante lo abbia dimenticato. Ciò che la festa di Santa Maria Maddalena del Bosco può insegnarci ancora oggi è la riscoperta dei suoi simboli, che celebrano senza ombra di dubbio una spiritualità maggiormente connessa con i ritmi naturali e con le energie del cosmo dalle quali siamo tutt’altro che avulsi.

Come nelle nozze sacre espresse nel Ballo della Morte, possiamo ricongiungerci non solo con parti perdute di noi stessi, ma anche con quel concetto di Tutto caro all’esoterismo antico e che via via trova ampie e sorprendenti dimostrazioni nelle scienze moderne. Possiamo partorire noi stessi infinite volte, come fa a Lena, rinascere ciclicamente dal nostro stesso grembo. E possiamo altresì imparare a fare l’amore con la vita, reimparando a danzarne l’estasi: il simile attira il simile, insegnano gli antichi.

In conclusione, a importare non sono i nomi umani che diamo al divino, né i gesti che abbiamo svuotato di ogni significato. A essere rilevante, invece, è la comprensione profonda di quanta energia divina sia presente in noi, a prescindere dal nome che ognuno le assegna. Altrettanto riguardo merita la ritrovata importanza che possiamo dare alle nostre azioni, ritualizzandole nuovamente e con consapevolezza.

© testo Melania D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com

N.B.: Tale elaborato non intende e non pretende di sostituirsi alle ricerche dei professionisti. A esse, semmai, si affianca e si ispira, proponendosi di offrire una visione differente di una realtà difficile da conoscere e interpretare, con l’intento che possa a sua volta ispirare nuovi studi e restituire all’umanità conoscenze perdute o troppo spesso taciute.

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[1] Nell’atto notarile si riporta quanto segue: Conoscendo l’infrascritti, che la visita che da molti anni in qua, annualmente essi fanno nel mese di luglio, tutti assieme uniti, e congregati in buona concordia e stretto nodo d’amicizia all’Oratorio di Santa Maria Maddalena del Bosco di questo territorio di Taggia loro avocata, aumenta ed infervorisce via sempre più i loro animi alla divozione di si gran Santa, con rendere sommo contento all’allegrezza ad una lecita et onesta conversazione, che in quel boscareccio villeggio in suddetto mese ogni anno da loro si fa con particolare anche soddisfazione e gaudio di tutti quelli, che in detto tempo concorrono a visitare detto divino oratorio.

[2] Interessante notare come per gli abitanti della Valle Argentina il castagno fosse considerato l’albero del pane, poiché il mondo contadino traeva sostentamento dai suoi frutti, tanto che le castagne facevano parte della dieta di base degli abitanti del posto. Il castagno era fondamentale per la sopravvivenza, specie nei mesi invernali, e offriva lavoro a svariate persone.

[3]Come dentro, così fuori. Come in alto, così in basso. Come l’universo, così l’anima” è una delle sette Leggi Universali secondo la filosofia ermetica che sarebbe stata fondata da Ermete Trismegisto, spesso associato al dio egizio Thot nonché padre dell’alchimia.

[4] Praticare questo rito è considerato pericoloso, visto lo stretto passaggio. Si rischia, infatti, di rimanervi incastrati, per questo oggi si sconsiglia di cimentarsi in questa attività.

[5] È interessante notare che in tale atteggiamento ritorni la stella Sirio insieme al collegamento con Iside, chiamata nei culti latini col nome di Stella Maris.

[6] La parola Cristo deriva dal greco e significa ‘unto’. L’olio di nardo è originario dell’antico Egitto, il che avvicina ancor di più Maria Maddalena a Iside.


Bibliografia:

L’intuito, il canto dell’Anima

In quanto esseri umani, possediamo un corpo fisico, unito ai corpi mentale ed emozionale, che creano campi energetici intorno a noi. Ma c’è un’altra parte che ci costituisce e che tendiamo a considerare meno, la più importante: l’Anima, incarnata nel corpo e che funge da tramite tra lo Spirito e il mondo della materia.

E Anima sa ben più di te di quanto conosci di lei. Ella ha una voce apparentemente flebile, difficile da udire se non si abbattono i muri dell’eccessiva razionalità. Mi piace definire il suo modo di comunicare con la parola “canto”, proprio perché ha in sé molto di divino.

Anima canta ed esulta quando segui i suoi consigli, quando ti abbandoni e ti affidi al sentire che fa emergere nel tuo cuore con amore e saggezza infiniti. Quando ti alleni a udire il suo canto, obbedirle diviene un incredibile atto di Fede, oltre che una questione di Onore – nella sua ottava più alta.

Molte volte, infatti, Anima lancia segnali d’allarme nei riguardi di certe situazioni, ma la ignoriamo, attribuendo tali sensazioni a inutili paranoie. Talvolta, più semplicemente, non vogliamo affidarci a quella voce che sentiamo dentro di noi perché ci è scomoda: vuole portarci da tutt’altra parte rispetto alla direzione che vorremmo (o meglio, che la nostra mente e il nostro ego desidererebbero) e questo non ci piace neanche un po’. Allora facciamo il diavolo a quattro pur di ottenere ciò che ci eravamo prefissati, ma… ecco che incontriamo una difficoltà e una sofferenza dopo l’altra, e il nostro stato di angoscia cresce, quasi come se stessimo subendo la peggiore delle ingiustizie.

Non riusciamo a comprendere, a guardare oltre, ad accorgerci che Anima ci aveva messi in guardia fin da subito. Perché Lei, in fin dei conti, non vuole il nostro male, ma suggerisce alle nostre orecchie quali passi seguire per vivere la nostra vita in modo divino.

Ecco perché opporci ai suoi consigli significa calpestare la parte divina di noi stessi.

Eppure non è cosa semplice lasciarsi andare al suo volere con Fede cieca e assoluta. Non la conosciamo, e ci è stato insegnato a diffidare degli sconosciuti. E poi, diciamolo: seguire il suo volere richiede atti di coraggio non indifferenti.

Per esempio: immaginiamo che Anima ti suggerisca di non accettare una determinata proposta di lavoro che invece bramavi da tempo. O che, magari, ti dica che la casa di cui ti sei perdutamente innamorat* non vada bene per te. O ancora che la persona che ti sorride e che reputi tanto carina in verità sarebbe meglio se non la frequentassi affatto.

Nel mondo materiale in cui viviamo, dobbiamo spesso fornire spiegazioni e/o giustificazioni alle nostre azioni e non è semplice darle, quando a cantare è l’Anima. E, anche nel caso in cui non servissero spiegazioni, non sappiamo come comportarci nei confronti di quel sesto senso del tutto irrazionale che urla a squarciagola messaggi nelle nostre orecchie. Ma ad Anima non interessano le seghe mentali che ci facciamo, non le importa ciò che perderemmo secondo la nostra limitata concezione mentale della realtà. Lei è divina e il suo canto ci chiede a gran voce di essere eroi, di svestire i panni della pavidità e spogliarci di tutte quelle convinzioni che ci rendono passive vittime della vita.

Se Anima fosse un personaggio delle fiabe non sarebbe il principe azzurro o la principessa da salvare, ma la matrigna, la strega, il mago… non già per la loro (presunta) cattiveria, quanto piuttosto perché spronano l’eroe e l’eroina all’azione. Sono figure iniziatiche senza le quali i protagonisti non potrebbero mai giungere al lieto fine della loro storia, ma continuerebbero a vivere come lavandaie, sguattere, cuoche, fabbri, mugnai, stallieri… senza mai approdare all’inestimabile premio della Regalità. Ma, come in ogni storia che si rispetti, niente si ottiene senza il superamento di prove, e quelle di Anima sono spesso contrassegnate da Fede e Coraggio.

Dovremmo re-imparare a tenere più in considerazione il nostro personale “sentire”. E dico re-imparare perché sapevamo farlo in altre vite, ma anche quando eravamo piccoli. I bambini, proprio per la loro giovinezza, sono più vicini al mondo dello Spirito rispetto alla nostra raggiunta età adulta/maturità. Quante volte abbiamo visto bambini piangere solo per aver visto in faccia uno sconosciuto (ma capita anche coi familiari, qualche volta)? Quante volte ridono, invece, senza apparente motivo a un estraneo o fanno capricci perché non vogliono restare in un posto che percepiscono come ostile? Spesso tutte queste reazioni sono dettate dall’energia che avvertono in modo potente, dal divino intuito che in loro non è ancora stato soffocato da dubbi e insicurezze. Ri-tornare a quello stato di connessione è ciò su cui dovremmo lavorare per ricongiungerci alla nostra Anima, che è Santa, Sacra.

C’è poi la questione delicata che accosta il seguire l’intuito alla paura di essere derisi e del giudizio altrui. Il “sentire” è un senso potente che appartiene solo a te, nessuno ha il diritto di contestarlo e nessuno dovrebbe importi visioni diverse solo “perché si fa così”. Tutto ciò che SENTI è VERITÀ PER TE, è la TUA realtà, che è ben diversa da quella di chiunque altro. Fidati di quel sentire: non sbaglia (CON TE), non ti tradisce. È al contrario un amico fedelissimo e prezioso come pochi altri, per cui non lasciare che la mente ti induca a credere che le regole, le imposizioni, le leggi, le credenze altrui debbano essere universalmente valide per tutti, anche per te. Non lasciare che ti faccia credere di essere sbagliat*. Il tuo sentire è SACRO. Seguilo sempre come fosse la tua Stella del Nord, l’ago della bussola che punta nella direzione giusta: è infallibile, non sbaglia mai.

Per riconnetterti con il canto della tua Anima, puoi cominciare a tendere le orecchie nei riguardi delle sensazioni che ti suscitano luoghi e persone, per esempio.

I posti che visitiamo, così come la gente che incontriamo, hanno un’energia che li contraddistingue, quasi come se avessero una vera e propria firma. Fermati, datti tempo per ascoltare quell’energia, quella voce che sprigiona da ogni cosa. Impara a osservare ciò che hai intorno, ma lascia che siano gli occhi della tua Anima a posarsi su quello che ti circonda. Non lasciare che la mente si appropri del tuo sentire, lascia fluire in piena libertà ciò che hai nel cuore.

Che sensazioni ti dà il posto in cui sei? Ti senti bene o inquiet*? Resteresti lì, ferm* per ore a bagnarti di quelle vibrazioni o, al contrario, non vedi l’ora di abbandonarlo? Che storie senti sussurrare al tuo orecchio? Fidati dell’intuito, non mente.

Rimani un po’ immers* in quel sentire, sostaci, sguazzaci, datti tempo. E, una volta compreso ciò che ti trasmette, dona a quel luogo il tuo Amore. Che l’energia che senti sia ostile o amichevole, non potrai che fare del bene in ogni caso… e a un gesto di benevolenza ne segue sempre un altro. Dovrai essere attent* a coglierlo, però, perché l’Universo non ha parole umane, la sua lingua è quella semplice della Natura, di cui pure tu fai parte: una piuma, l’avvistamento di un animale, un fiore, un cinguettio, un colore, un motivetto, le parole di un passante udite per caso… sono questi i mezzi che usa per comunicare con noi. Re-imparare questo idioma antico apre a nuove, inimmaginabili dimensioni; se puoi, quindi, non precluderti la bellezza e l’abbondanza che spettano a ogni essere vivente. Scoprirai un mondo nuovo e ricco di pienezza che sarà capace di sorprenderti con effetti speciali.

La stessa cosa puoi farla in altri ambiti: come senti quell’informazione che ti viene data? Come si muove dentro di te? Cosa ti dice il tuo sentire riguardo quella pratica che in tanti osannano? Quando sei in un bosco, che percezioni hai? E potrei andare avanti all’infinito.

Potresti sorprenderti molto di ciò che salirà dal tuo cuore. È capitato spesso anche a me.

Per le mie ricerche sui culti femminili nelle zone in cui vivo e che condivido in questo spazio virtuale, mi dedico all’esplorazione dei luoghi col cuore aperto, pronta a ricevere intuizioni, e questo atteggiamento di apertura mi dà più di quanto immaginassi.

Ho incontrato alberi chiacchieroni, la cui voce non poteva essere ignorata. Li ho osservati con attenzione e solo in seguito ho scoperto che a essi era dedicato un culto o un rito.

In luoghi dimenticati e dalla storia avvolta nelle nebbie sono stata guidata da mani e richiami invisibili, invitata a scoprirne le origini con la familiarità che si riserva agli amici di vecchia data chiamati a condividere una tazza di tè. Una tessera alla volta, ecco comporsi un mosaico dalla bellezza inaspettata, così grande da togliermi il fiato. Ho pazientemente seguito il bandolo di una matassa di cui non vedevo la fine, affidandomi agli indizi seminati dal mio intuito come una scia di briciole di pane che mi ha sempre riportata a Casa. Non già quella fisica, fatta di muri, ma quella dell’Anima che tutto conosce.

E allora mi è sorto spontaneo chiedermi come abbia fatto a ignorare per così tanto tempo questa Voce meravigliosa che ognun* di noi possiede.

Siamo così soffocat* nelle nostre espressioni più naturali, che anche le esperienze che dovrebbero essere semplici come respirare sono diventate difficili, se non quasi impossibili. Siamo obbligat* a rispettare turni lavorativi massacranti, a sopprimere gli istinti, a conformarci a quello che altri hanno deciso per noi. Eppure ci sono conquiste e valori di cui possiamo riappropriarci, almeno in parte, scegliendo abitudini più sane, ritagliandoci del tempo per riscoprirci selvatici appartenenti al Tutto.

Dopo tutti gli immensi e inestimabili doni del mio Intuito, mi sorprendo ancora, ma tempo fa mi sono fatta una promessa che intendo mantenere: non rinnegare mai il Canto della mia Anima, il Sacro Sentire che emerge con tutta la bellezza della divina Afrodite dalle maree del mio cuore in un moto d’Amore.

E voi, che rapporto avete col vostro intuito?

Mel

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