Con l’arrivo di questo mese, il caldo si fa deciso e stabile. Tutto è immagine dell’abbondanza, coi campi e gli alberi carichi di ortaggi e frutti succosi.
Luglio si chiamava anticamente Iulius, in onore di Giulio Cesare che nacque in questo mese. Un nome poco poetico, rispetto a quelli di molti altri mesi dell’anno, ma non per questo meno ricco di tradizioni interessanti, legate soprattutto al mondo agricolo e campestre.
Il mese è associato al numero sette, che simboleggia un ciclo che si compie e il conseguente rinnovamento in positivo. Sette sono i giorni della settimana, i pianeti dell’astrologia tradizionale, le note della scala musicale. Sette sono pure le lettere che compongono l’acronimo alchemico VITRIOL (Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem). In Cina si ritiene che il numero sia legato alla vita della donna: a 7 mesi la bambina mette i denti da latte, a circa 7 anni li perde, in due volte sette anni le si apre la strada dello yin, ovvero raggiunge la maturità sessuale e a sette per sette, ovvero quarantanove, raggiunge la menopausa. Il sette è dispensatore di vita ed è la fonte di ogni cambiamento, difatti anche la luna modifica le sue fasi ogni sette giorni. Se si desidera cambiare qualcosa nella propria vita, dunque, Luglio è un mese propizio per farlo. Il sette rappresenta anche la totalità dello spazio e del tempo ed è il trionfo dello Spirito sulla materia. É numero di potenza, virtù e beatitudine.
Per i Celti l’8 luglio principiava il mese dell’Agrifoglio del calendario arboricolo Ogham. Dopo il Solstizio d’Estate siamo entrati nella metà oscura dell’anno e l’Agrifoglio è la pianta che dà il nome al sovrano di questi mesi che ci condurranno sempre più dentro noi stessi e che finirà per concentrare l’energia nelle radici e nel seme. Inizia, dunque, la lenta discesa del sole sull’orizzonte, le ore di luce cedono pian piano il passo a quelle di buio e oscurità, e anche la nostra energia, da questo momento in poi, sarà sempre più concentrata all’interno. Il Sole Bambino nato metaforicamente in noi col Solstizio d’Inverno è giunto alla sua essenza matura, alla pienezza dell’età adulta, che d’ora in poi stempererà in vecchiaia fino al prossimo Solstizio, quando si rinnoverà.
Tra le piante simbolo di luglio c’è sicuramente il grano, che già da giugno è divenuto protagonista di potenti riti arcaici che confluiranno, a fine mese, con la celebrazione di Lughnasad e Lammas, grandi feste del raccolto del mondo antico (per approfondire, puoi leggere l’articolo “Lughnasad e Lammas, feste del raccolto“). Il grano è simbolo del ciclo agricolo, rappresenta la vita e l’abbondanza, il sacrificio e la trasformazione, ed è il prodotto che più di ogni altro rappresenta la Madre Terra (per approfondire, puoi leggere l’articolo “Il pane di Lammas trasforma anche noi“).
La Grande Madre del Grano allestita per la festa di Triora Lammas 2018
E, a proposito di Dea Madre, in questo mese si celebrano due donne cristiane che molto hanno in comune con alcuni aspetti dell’antica divinità femminile. Il 22 luglio, infatti, è il giorno dedicato a Maria Maddalena, mentre il 26 a Sant’Anna.
La figura storica di Maria Maddalena è raccontata nei vangeli, nei quali ci viene detto che ella fu liberata da sette demoni grazie al Cristo (ritorna la simbologia del numero associato al mese di Luglio), fu la prima a cui apparve Gesù, risorto dalla morte. E qui ritroviamo già un primo sintomo di culti più antichi, come quello della divina Iside che, con la sua potente magia, consentì al suo amato sposo Osiride di rinascere, resurrezione di cui, per l’appunto, fu testimone (per approfondire, puoi leggere l’articolo “Iside e Osiride: un mito di resurrezione, iniziazione ed equilibrio“). Maria di Magdala, racconta la leggenda, non rifiutava al proprio corpo alcun piacere, caratteristica che le valse l’epiteto di peccatrice. Eppure anche in questo si trova un indizio assai importante della Dea antica e del suo culto, che promuoveva il piacere, anziché il dolore, e celebrava estaticamente la vita.
A Maria Maddalena è dedicata una grotta in Provenza, che secondo la leggenda fu abitata da lei negli ultimi anni della sua vita, una spelonca assai venerata dai fedeli, all’interno della quale sono presenti formazioni globulari che rimandano alla forma dell’uovo, simbolo del grembo materno e che rimandano alla Dea Uccello della preistoria; ancora in tempi recentissimi, all’esterno della caverna erano venduti reliquiari ovali che racchiudevano l’immagine della Maddalena (per approfondire, puoi leggere gli articoli “L’uovo della Rinascita” e “Riti sepolcrali preistorici in Valle Argentina – Nel ventre della Grande Madre“). In questo luogo dalle energie suggestive e arcaiche, Maria Maddalena è diventata patrona della fecondità, tanto da ricevere le richieste di aiuto da migliaia di donne a lei devote, che giungevano qui per ottenere il matrimonio e la fertilità per i loro grembi, con simboli arcaici legati esplicitamente ai culti della Grande Madre preistorica.
Maria Maddalena, Dante Gabriel Rossetti, 1857
Quanto a Sant’Anna, ella è protettrice delle partorienti e delle madri, delle ricamatrici e delle lavandaie, patrona delle donne che desiderano la maternità e dei minatori. Il colore del suo mantello, secondo i vangeli apocrifi, è di colore verde come i prati che ricoprono la terra, tinta, tra l’altro, associata al Chakra del Cuore. È raffigurata spesso come una Grande Madre che troneggia sulla Madonna e su Gesù bambino, formando una triade assai interessante, diretta discendente dei culti arcaici dell’antica Dea. In questa figura femminile cristiana riecheggia il culto di Demetra e Persefone, in cui la Madre genera la Figlia, che a sua volta dona vita alla Spiga di Grano (per approfondire, puoi leggere gli articoli “Demetra e Persefone e la promessa della rinascita” e “Giugno“).
Bassorilievo di Cerere Demetra
Un ulteriore indizio dell’arcaicità della figura di Sant’Anna è rappresentato anche dal suo stesso nome, che presenta la sillaba “an“, appartenuta a tutte le più grandi dee madri del mondo antico e che in sanscrito rimandava alla creazione di tutte le cose e alla prorompenza della vita, è principio vitale del cosmo, connesso anche alle acque. Non a caso Sant’Anna è collegata anche al mare. Più tardi, in lingua ebraica, il verbo hanàn significherà “concedere grazia” e Anna Perenna era pure una dea romana festeggiata durante il plenilunio alle Idi di marzo, divinità associata al perpetuo rinnovarsi dell’anno e all’inesauribile nutrimento offerto dalla terra. A tal proposito, gli induisti veneravano Annapurna, dea che incarna la luce che sazia ogni essere. Non solo nutrimento materiale, fisico, dunque, ma anche e soprattutto spirituale.
Nei culti e nelle feste di Maria Maddalena e Sant’Anna, quindi, troviamo molto delle energie del mese di Luglio e dei riti arcaici che in questo periodo dovevano svolgersi, interamente dedicati alla Terra e alla sua benedetta abbondanza, fonte di vita e sostentamento.
Il fiore del mese è il giglio bianco, insieme a quello che cresce spontaneo sulle spiagge sabbiose. La sua origine mitica è assai poetica, poiché si dice che nacque dal latte di Era, schizzato dal suo seno sulla terra e nel cielo. Le gocce terrestri fecero nascere i primi gigli, mentre quelle celesti diedero vita alla Via Lattea. L’Era dei primordi, che nulla aveva a che fare con la dea vendicativa e gelosa che ci viene tramandata anche dai testi scolastici, era ancora una volta riflesso della Grande Dea, madre di Vita (consigliata, a tal proposito, la lettura del saggio “Le Dee perdute dell’antica Grecia” di Charlene Spretnak). Il giglio, dunque, ne rappresenta il corpo fertile ed è diretto portavoce della fecondità della terra e del materno amore. Fu consacrato anche alla romana Giunone, assumendo il nome di Iunonia rosa. Rappresenta la procreazione, la bellezza, la verginità, la regalità e la ricchezza. Fu accostato anche a un’altra Madre, Maria, la piena di grazia, e perciò ispira la purezza dell’anima, la santità e la verginità che fu anche di altre dee del passato.
Nel mese di Luglio, infine, principia il segno zodiacale del Leone, segno di fuoco calmo e sovrano, come una fiamma viva e costante. Il leone era animale consacrato ad Atena, patrona delle arti, legata alla protezione della città. Passionale, incontenibile, esuberante, chi nasce nel segno del Leone è un tipo molto emotivo, forte, nobile d’animo, capace di sollevarsi dalle peggiori disgrazie, spinto dalla gioia di vivere, conviviale. È una forza della natura, nata per inneggiare alla vita, e per questo può essere idealista.
Col segno del Leone si entra nel periodo della canicola, il più caldo dell’anno. Il nome deriva dalla stella Sirio, protagonista dei cieli del periodo, facente parte della costellazione del Canis Major. Furono gli Egizi a definire il periodo contrassegnato da Sirio “canicola” perché, come un cane vigile, li avvertiva della benefica inondazione del Nilo che portava abbondanza e ricchezza, permettendo col suo limo ottimi raccolti.
Consapevoli delle energie di bellezza, pienezza e abbondanza del periodo corrispondente a questo mese, dunque, possiamo imparare a ri-allinearci con le vibrazioni cosmiche e terrestri, al fine di ritrovarle dentro di noi e manifestarle nella realtà, perché, ci tengo a ricordarlo, spiritualità e conoscenza non dovrebbero essere relegate unicamente alla cultura personale, ma applicate con dedizione alla vita quotidiana. A Luglio l’Universo ci parla di fecondità e ricchezza, le stesse che appartennero alle dee del passato: facciamole nostre, permettiamoci di sentirci esseri ricchi di luce e abbondanza divine, scintille feconde e condottiere dei fertili messaggi dell’Universo. Solo così il raccolto che in questo mese si manifesta nei campi potrà verificarsi anche dentro di noi, in una spirale di prosperità perpetua.
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La mela è da sempre simbolo di immortalità e saggezza, frutto prediletto di molte dee dell’antichità. Ha ispirato miti e leggende sul suo conto che ancora oggi ci tramandiamo e ricordiamo con sguardo volto al mistero.
Eppure, com’è accaduto anche in altri ambiti, questo frutto dai mille portenti è stato demonizzato, arrivando a rappresentare perfino l’allontanamento estremo dalla natura divina.
Le parole e i miti, tuttavia, ci raccontano storie più antiche di ciò che crederemmo, narrazioni precedenti ai tempi relativamente recenti del patriarcato. Il nostro termine mela deriva dal latino malum. È interessante fermarsi a riflettere sul significato di quest’ultima parola, che il dizionario traduce con: male, colpa, delitto, disgrazia, danno, svantaggio, pena, castigo, fatica, malattia. Tutto il contrario di ciò che il frutto della conoscenza rappresentava ai primordi. E subito nella nostra mente si delinea l’immagine di un giardino paradisiaco, di una donna, un uomo e un serpente…
Eppure l’Eden non è un’invenzione cristiana. Un sacro e splendido hortus, posto nell’estremo Occidente del mondo, faceva parte già della mitologia dell’antica Grecia, dov’era conosciuto con il nome di Giardino delle Esperidi, carico di mele d’oro dalle molteplici virtù. Per i mortali era proibito accedervi, e il melo era sorvegliato dalle Esperidi – ninfe figlie della Notte – e dal drago Ladone, che montava la guardia avvolgendo le sue spire intorno al tronco dell’albero sacro. Il giardino apparteneva a Era e fu la Madre Terra a regalarle il melo dai frutti d’oro. Ecco, dunque, che già in questo mito scorgiamo le avvisaglie di culti più antichi, per i quali la mela era simbolo della Grande Madre.
Questo frutto era sacro anche all’arcaica Afrodite, non semplice dea dell’amore frivolo e della bellezza, bensì della vita, della Primavera, della fertilità, della gioia e dell’amore che genera ogni cosa in natura. Tagliando la mela a metà in senso verticale, vi si ritrova la forma della sacra vulva femminile, la porta attraverso la quale si accede all’esistenza terrena. Se la si taglia in senso orizzontale, invece, i suoi semi disegnano una stella perfetta che, insieme alla vulva, è simbolo caro ad Afrodite.
Le mele sono anche protagoniste della mitologia celtica, dove vengono donate agli eroi da donne bellissime, messaggere dell’Oltremondo. Sono cibo divino che non si consuma, ma che anzi si rigenera mangiandolo, simbolo della conoscenza che non può giungere al termine, poiché la vita è fatta di continuo apprendimento. Ma rappresentano anche il nutrimento inesauribile offerto dall’unione col divino, che mai lascia affamati o insoddisfatti.
Le tradizioni bretone e gallese ci parlano poi di Avalon, la mitica Insula pomorum che rievoca nel nostro immaginario le storie di Artù e dei suoi cavalieri, di Mago Merlino, della Dama del Lago e di Morgana. Avalon deriverebbe dalle radici indoeuropee aval– e abel-, che significano mela, per l’appunto, anche se un’altra possibile etimologia connette il nome dell’isola leggendaria con l’Annwn, l’Oltremondo regno di fate e delle anime dei defunti. E Avalon è conosciuta anche come l’Isola Fortunata, poiché produce ogni cosa da sé. Su di essa la terra si coltiva da sola e produce fiori e frutti in abbondanza, non esistono la fame e la malattia per chi vi abita, caratteristiche, queste, che non solo la collegano alla nostra immagine del Paradiso, ma anche all’immortalità offerta dalle mele.
Il mondo celtico conserva anche la memoria di altre terre amene che, come Avalon, sono isole governate da divinità ed eroi, luoghi in cui l’abbondanza regna sovrana. Tir na nÓg, situata a Occidente, è l’Oltretomba celtico in cui giungono uomini e donne che in vita hanno compiuto grandi gesta, ma alcuni fortunati possono accedervi anche da vivi, come accadde al bardo Ossian, ivi condotto dalla dolce Niamh dai biondi capelli, la divina figlia del re del mare (per saperne di più, puoi leggere il mio articolo: “Ossian e Niamh tra Spirito e Materia“). È terra meravigliosa, colma di gioie e le cui seduzioni sono ben più piacevoli di quelle terrene. Un altro nome dell’Oltremondo celtico è MagMell, La Pianura della Gioia, terra promessa dell’Anima dalla quale tutti gli esseri umani provengono e alla quale ritornano nei cicli eterni della vita.
E, senza andare poi tanto lontano, anche la Liguria, in un certo senso, ha la sua Avalon. Come abbiamo visto, l’Isola delle Mele avrebbe la sua etimologia da abel-, avel-, abal-, afel-, apel- ecc., tutti morfemi che non solo rimandano alla simbologia della mela, ma anche alla dea gallica Belisama e alle api, dal cui miele si ricavava la bevanda sacra per eccellenza, l’idromele. Nella Liguria di Ponente sono diverse le testimonianze della toponomastica che si riferiscono proprio a questa antica divinità e che rimandano al pantheon celtico, nonché alle leggende britanniche. Ne sono un esempio Colle Melosa, il Monte Pietravecchia (in origine Priaveglia, dove ‘veglia’ stava per ‘ape’) e il Monte Abellio, così come il Colle Belenda, tre luoghi non distanti tra loro che recano ricordi di tempi ormai lontani e testimonianze importanti di quel mondo.
Colle Melosa, poi, per via della sua collocazione è spesso attraversato da passaggi di nuvole basse, che lo avvolgono nella mistica nebbia che appartenne anche ad Avalon. In queste terre abitavano i celto-liguri con i loro déi, e qui sono stati rinvenuti importanti monumenti archeologici (non ancora riconosciuti) quali menhir, dolmen e cerchi di pietre che di certo non suscitano lo stesso scalpore di Stonehenge, ma esistono ed è importante restituire loro il giusto valore.
Siamo spesso propensi a credere che fuori dai confini della nostra terra esistano posti dall’incredibile energia, ci affanniamo alla ricerca di qualcosa che non possiamo raggiungere e, così facendo, dimentichiamo la cosa più importante: che il divino risiede dentro di noi e ben più vicino di quanto oseremmo immaginare. A convincerci di questo vengono in nostro aiuto non solo l’origine dei termini, ma anche gli studi svolti da professionisti, che ci raccontano ormai da tempo che fu il nostro Mediterraneo la culla di molte culture e tradizioni; Avalon, Viviana e Morgana, dunque, sarebbero nati proprio sulle sponde del nostro mare, trasformati nel tempo e riadattati ai luoghi. Sono stati rinnovati i riti e le leggende che li riguardano, ma la loro essenza permane la stessa.
Avalon è un’isola abitata da dee che sono anche maghe, e questo nel Mediterraneo lo ritroviamo nell’isola di Eea, magica dimora della celebre Circe, accompagnata da ninfe. La sua isola è anche conosciuta col nome di Aiaia, “terra fertile, umida”. Su un’isola vivevano e operavano la loro arte pure Medea e Pasifae, altre dee e maghe della tradizione greca, e così fu pure per la bretone e gallese Morgana. In passato ogni cosa era permeata dalla Dea, per cui non deve sorprendere che le stesse caratteristiche che si presentano in un luogo si ritrovino pressoché identiche anche a molti chilometri di distanza.
La Dea dei primordi esisteva in ogni espressione della natura. Questo significa che era elargitrice di vita, ma anche dispensatrice della morte e di tutte quelle manifestazioni che noi oggi riteniamo erroneamente negative. La dea celtica irlandese Morrigan e la Fata Morgana del ciclo arturiano rappresentano sicuramente bene gli aspetti più oscuri della Grande Madre.
In ambito mediterraneo le maghe erano conosciute soprattutto per la loro conoscenza di erbe e intrugli, con i quali potevano guarire o accelerare la morte. Uno dei popoli mitici che fece la storia d’Irlanda, quello rimasto più impresso nell’immaginario comune, è quello dei Tuatha dé Danann, il popolo dei figli della dea Danu. Le origini di questo popolo sono diverse, ma secondo una delle numerose leggende essi giunsero in Irlanda dal Mediterraneo orientale. Miti e racconti leggendari possiedono un fondo di verità e gli studiosi hanno individuato una possibile origine meridionale di un popolo che giunse in Irlanda, come narrano le storie contenute nel Libro delle Invasioni. È così, dunque, che venne introdotta la figura della maga celtica che fu tratta dal substrato di credenze mediterranee, e a dimostrarlo sono diverse prove linguistiche e anche alcune usanze rituali del mondo celtico, come quella delle nozze sacre, che veniva praticata in origine presso i Sumeri. Danu, Ana, Anu sono dee celtiche che hanno in comune una connessione con la terra e con i suoi aspetti fertili e materni. In questi nomi di divinità si ritrova anche la sillaba “an” che designava nell’antichità tutte le dee madri legate alle acque: in tutti i nomi di divinità nei quali compare, tale sillaba denota l’essere Madre, offre il principio creativo tipico del femminile. Lo ritroviamo anche nella dea Morrigan della tradizione irlandese, definita la Grande Regina, e così pure in Morgana. Secondo ipotesi accreditate, il culto di Morrigan giunse in Gran Bretagna, dove fu trasformata nella volubile e temibile Morgana.
La radice del nome di queste due affascinanti figure femminili, poi, è da ricercarsi ancora una volta nel Mediterraneo, dove mor– sta per “mare”. Interessante notare a questo proposito come la Morrigan sia spesso legata alla terra nei miti che la riguardano, mentre Morgana abbia un legame particolare con le acque sacre (e marine) che circondano la leggendaria Avalon. In alcuni miti, Morrigan appare come figlia del dio sovrano del mare che aveva la sua dimora nelle isole a Ovest dell’Irlanda, là dove risiedeva pure l’Oltremondo celtico, come abbiamo visto. Ed ecco, quindi, che la connessione tra Morrigan e il mare viene spiegata, laddove era anche la divinità legata indissolubilmente alla morte, tanto che in molti la ricordano per il suo ruolo psicopompo. Di origine mediterranea è pure il seguito di 26 guerriere della dea irlandese, che ricorda le Amazzoni dell’Artemide nostrana.
Morgana fu profonda conoscitrice della magia e nelle vicende che la riguardano si riscontra un tipico sapore mediterraneo. La Morrigan aveva un eroe prediletto, che ostacolava e al contempo proteggeva: il mitico CuChulainn. Questo si trasmise anche a Morgana, sorella del prode Artù, di cui diviene l’amante: questa unione che noi oggi definiremmo incestuosa, per gli antichi aveva significati profondi, che stentiamo a comprendere. La storia delle dee mediterranee è costellata di unioni tra consanguinei, tradizione che si ritrova appunto anche nel ciclo arturiano, oltre che nelle leggende legate alla Morrigan irlandese. Il rapporto tra la dea e il suo paredro stava a rappresentare l’unione massima, il ritrovare l’unicità perfetta tra un maschile e un femminile che si compenetravano e completavano a vicenda.
La figura di Morgana, così come accadde anche con la Morrigan, fu ridimensionata dal patriarcato, per cui oggi ci appare come una miniatura di se stessa e di ciò che doveva apparire alle origini. La troviamo infatti vendicativa, capricciosa, tessitrice di intrighi… tutte caratteristiche aggiunte a posteriori su un quadro potente e meraviglioso, quello che ai primordi rappresentava certamente una dea e una maga fiera, implacabile, sicuramente rappresentante degli aspetti più oscuri della vita, ma mai bellicosa, caratteristica, questa, appartenente alla visione patriarcale della realtà. Morgana era maga prodigiosa, in grado di realizzare ogni cosa volesse, caratteristiche che ereditò dalla Morrigan.
Circe, Medea, Pasifae, Era, Demetra, Persefone, Ecate, Artemide… e ancora Iside, Bona Dea e Morgana. Da esse e in esse nacque e si sviluppò il culto della mediterranea Potnia Phyton, Signora delle Piante, colei che era dea, maga, sapiente, e conosceva i segreti di erbe, filtri e tinture. L’arte dei pharmaka è sempre appartenuta per natura più alle donne, e dal mondo antico fino a tempi recenti si tramandano storie di maghe belle e terribili che presiedevano – o alle quali erano dedicati – giardini incantati, paradisi di fiori e di frutti sorvegliati da creature divine femminili. Erano per l’appunto luoghi traboccanti di mele, dalla collocazione misteriosa e imprecisata, spesso isole su cui l’eroe giungeva dopo infiniti perigli, oppure circondati da mura che era vietato oltrepassare. Le dee maghe dell’antichità sopravvissero anche in epoca medievale, quando confluirono nelle Dominae Herbarum, guaritrici e levatrici profondamente rispettate dalla comunità, almeno fino a che non giunsero le prime accuse di stregoneria (per approfondire, puoi leggere l’articolo “Le Dominae Herbarum, guaritrici dei poveri“).
Il Giardino delle Esperidi, Avalon, MagMell, Tir na nÓg, Aiaia, sono terre mitiche che, oltre a rappresentare un mondo magico spesso connesso con l’oltretomba, possono essere raggiunte dentro di noi, in quello spazio sacro insito in noi e che abbiamo ricevuto per diritto divino. Sono luoghi che ancora ci insegnano a trovare e coltivare il giardino interiore, che altro non è che la nostra parte divina, più vicina di quanto osiamo immaginare. E quella parte sacra, non detiene forse la conoscenza del mondo, dell’umanità e dell’universo intero? Non è forse immortale, a differenza del corpo che abitiamo? Ed ecco tornare a galla la mela, sfera perfetta e metafora del cosmo, sempre accostata alle mani e alle cure femminili, come abbiamo visto.
Dall’antichità e fino ai giorni nostri, la donna è depositaria di arti e conoscenza, maga per natura e grande iniziatrice capace di spalancare le porte dell’invisibile. Non sorprende che la mela fosse associata a lei e alla Grande Madre, visti gli attributi femminili che presenta al suo interno. La vulva che si ritrova tagliandola a metà è l’accesso al mondo terreno e all’utero materno, contiene in sé la vita e la morte, e, dunque, la conoscenza del mondo intero e il segreto dell’immortalità.
Credits:
© testo Melania D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com
Immagine di copertina: A Masque for the Four Seasons, Walter Crane. Le immagini prive di didascalia sono state tratte da Pixabay.
Bibliografia:
Giugno è mese di sole e di erbe, di caldo che aumenta divenendo protagonista delle nostre giornate all’aria aperta, ma anche di api, più che mai laboriose e affaccendate. È periodo balsamico di molte piante utili alla guarigione, motivo per cui se ne raccolgono molte durante il mese per preparare unguenti e conserve utili per tutta la stagione e per quelle successive.
Il nome del mese potrebbe avere tre derivazioni: da Iuno – Giunone – oppure da iuniores, i giovani, in contrapposizione a maius dal quale deriverebbe maggio e in quanto mese dei maiores, gli anziani; o infine da Iunius Brutus, primo console romano divenuto tale alle Calende di giugno, dopo aver cacciato da Roma un tiranno. L’ipotesi più accreditata sarebbe la prima, che vede protagonista Giunone. Alla dea, infatti, erano consacrati i matrimoni, che per i Romani, come abbiamo visto, erano proibiti nel mese di maggio (per approfondire, leggi l’articolo “Maggio“) e favoriti a giugno. In origine, Giunone – Era per i Greci – era la dea delle donne e della fecondità che presiedeva anche le nozze sacre. Ella celebrava il rinnovamento e la fertilità della natura, in particolare quella del suolo. Solo in epoca patriarcale divenne la dea bisbetica, gelosa e vendicativa che abbiamo imparato a conoscere. È verosimile, dunque, che giugno le fosse dedicato, poiché esso è compreso in una mese lunare dedicato ancora una volta al corpo femminile e alla terra gravida, come vedremo a breve.
Giunone, circa 380 a.C. Fonte immagine: Wikipedia.
Giugno è legato al numero sei, simbolo della perfezione del Creato. Per la religione cristiana, esso fu portato a termine in sei giorni. Il sei misura lo spazio visibile perché è caratterizzato dai quattro punti cardinali e da zenit e nadir. A questo simbolismo si ispira anche la stella a sei punte, composta da due triangoli, conosciuta come Stella di David: raffigura l’armonia cosmica e l’equilibrio e, nell’induismo primitivo, rappresentava l’unione del triangolo di Vishnu creatore e il triangolo di Shiva distruttore. La stella a sei punte, il Sigillo di Salomone, nella nostra tradizione occidentale è simbolo della polarità esistente tra spirito e materia, Dio e cosmo, spazio e tempo.
Questo mese era chiamato dai nativi americani Luna dell’Oca che non vola, Luna delle Pesche o Luna del Salmone. È periodo di lumache, simboli di vita allo stato aurorale, e di farfalle, regine di trasformazioni che sono la più bella rappresentazione della rinascita a nuova vita.
Secondo il calendario arboricolo celtico Ogham, il mese che andava dal 10 giugno al 7 luglio era dedicato alla Quercia, emblema della forza e della regalità, nonché albero sacro per eccellenza. Simboleggia l’anima e la saggezza ed è permeata dall’energia della conoscenza, la quale veniva assorbita dai Druidi. Questa casta sacerdotale deve il proprio nome alla Quercia, da cui deriva etimologicamente. Questo albero era sacro a Dagda, il “dio buono” della tradizione celtica, legato alla fertilità e all’abbondanza, ma anche alla sovranità. Per tutte le caratteristiche attribuitele nei secoli, la Quercia rappresenta le prove iniziatiche da superare per la trasformazione alchemica.
Il primo giorno del mese era dedicato nell’antica Roma alla dea Carna, conosciuta per essere stata in principio una ninfa che teneva in alta considerazione la propria verginità[1]. Protettrice degli infanti, se invocata Carna li difendeva dalle forze del male. Divenne la protettrice degli organi interni, soprattutto di quelli dei bambini, ed era colei che assicurava il benessere fisico degli uomini. Carna, tuttavia, era anche guardiana della soglie, domestiche e non: non un caso, dunque, che feste in suo onore si celebrassero a giugno, nel varco tra una metà e l’altra dell’anno, poiché in questo mese si colloca il Solstizio d’Estate. Ci troviamo sulla soglia di un passaggio di stagione, al giro di boa dell’anno corrente. In particolare, nel giorno a lei consacrato si festeggiavano le Calende delle fave: alla divinità si offriva una farinata di questi legumi, che veniva consumata in ambito rituale con un pasto sacro. Interessante notare che, nonostante il periodo estivo ponga l’accento sulla vita, le fave siano state considerate nell’antichità cibo dei defunti, segno, questo, che nella vita sono già presenti i semi della morte, così come in quest’ultima si trovano i germogli della vita.
A giugno si inizia a mietere il grano, momento contadino che in passato vedeva come protagonisti diversi riti apotropaici e tradizioni connesse alla Madre del Grano – Demetra – che avranno il loro culmine tra la fine di luglio e i primi giorni di agosto. La Demetra dei primordi, di origine cretese, era dea della vita e dell’abbondanza, ma anche della morte, madre che accoglieva nuovamente nel suo grembo i propri figli dopo che essi avevano fatto esperienza della vita terrena. I defunti, infatti, venivano chiamati “popolo di Demetra”. Ella era dispensatrice del raccolto, ma anche sovrana del regno infero. Durante la mietitura era credenza diffusa che la Madre del Grano risiedesse nel’ultimo fascio di spighe non mietute rimaste nel campo. Alcuni popoli lo tagliavano, portandolo a casa e venerando la sua essenza divina; altri lo ponevano nel granaio affinché lo spirito in esso contenuto potesse riapparire durante la trebbiatura; altri ancora battevano il fascio per far sì che la Madre del Grano se ne andasse e liberavano così il cereale dalla pula. In certi casi, all’ultimo covone venivano date le sembianze di una bambola, vestita di abiti femminili; il fantoccio poteva essere poi bagnato con un secchio d’acqua per richiamare ritualmente la pioggia, oppure veniva usato per scacciare il male dai fienili.
Il 21 giugno cade il Solstizio d’Estate, ampiamente celebrato in tutto il mondo antico. I celti lo chiamavano Litha, ma presso di loro era anche conosciuto come Alban Heruin, “Luce della riva” (per approfondire, leggi l’articolo “Il Solstizio d’Estate, Litha e San Giovanni“). In questa data ci troviamo esattamente al confine tra due metà della Ruota dell’Anno e da questo momento ci dirigeremo sempre più verso l’inverno. Nella lotta simbolica tra il Re Agrifoglio e il Re Quercia, messa in scena nel mondo celtico durante le festività dei periodi solstiziali, il 21 giugno vince il primo, che regnerà per i prossimi sei mesi conducendoci sempre più al centro di noi stessi, dandoci l’opportunità di scendere in profondità dentro di noi e di affrontare il buio e le prove che ci si presenteranno.
A Litha il ventre della terra, che era stato fecondato con lo hieros gamos – le nozze sacre – durante le celebrazioni di maggio e la festa di Beltane, ora è gonfio: i frutti giungono a maturazione e a breve arriverà il tempo del primo raccolto (per approfondire, puoi leggere gli articoli “Beltane, i Floralia e Calnedimaggio: tre nomi per una sola festività” e “Lughnasadh e Lammas, feste del raccolto“). Le ciliegie sono pronte per essere colte, ma la tradizione vuole che siano prese dal ramo rigorosamente prima di San Giovanni, se non vi si vuole trovare dentro il “Giovannino”, ovvero il baco.
E il 24 giugno cade proprio la festa di San Giovanni, divenuta tra le più celebri non tanto per la devozione al santo, quanto piuttosto per il suo trovarsi nel periodo solstiziale, da sempre ritenuto particolarmente sacro, anche in Italia. Il sole raggiunge la sua massima declinazione positiva nel cielo, e questo, fin dall’antichità, ha reso i solstizi momenti di comunicazione tra il visibile e l’invisibile. La festa di San Giovanni non coincide con il giorno del solstizio, così com’è accaduto per il Natale cristiano, perché un tempo era in questi giorni sacri che si svolgevano le feste e le celebrazioni più importanti in virtù del fatto che il sole sembrava sostare per tre giorni (“solstizio”, dal latino sol stat, il sole si ferma) nello stesso punto del cielo per poi riprendere il suo cammino verso Nord o verso Sud, a seconda del periodo dell’anno corrispondente.
Nella religione greca i due solstizi erano chiamati porte: “porta degli déi o degli immortali” quello invernale, “porta degli uomini” quello estivo. I solstizi sono quindi simboli del passaggio da uno stato a un altro. La festa di San Giovanni rappresenta la via simbolica della manifestazione che introduce gli esseri umani nella caverna cosmica. Per questo motivo, le usanze legate al periodo hanno il compito di proteggere il Creato: nonostante l’estate sia appena cominciata, si entra nella parte discendente dell’anno, quella che ci condurrà all’inverno della natura e della nostra interiorità. Ecco allora che i falò di questa festa assumono valore apotropaico, le erbe dai poteri miracolosi vengono raccolte per farne conserve utili alle future difficoltà ed erano utilizzate anche per scongiurare il male, e persino alla rugiada – detta guazza di San Giovanni – venivano attribuiti straordinari poteri di guarigione nei confronti dell’infertilità.
Il 24 giugno è anche notte di streghe, di diavoli e spiriti per antonomasia, ed ecco perché sono sorte diverse usanze per proteggere se stessi e il bestiame dal malocchio e da attacchi magici indesiderati.
Tra le erbe associate al periodo, troviamo l’iperico, erba di San Giovani per eccellenza, anche chiamato Scacciadiavoli per le sue proprietà apotropaiche. Si credeva tenesse lontani le streghe e gli spiriti (puoi approfondire leggendo l’articolo “L’Iperico o Scacciadiavoli” e “L’oleolito di iperico, l’oro rosso liquido con il potere del Sole“).
Un’altra erba legata al solstizio estivo è l’aglio, che acquistato in questo momento dell’anno si diceva portasse ricchezza e benessere. Insieme a esso, compare anche l’artemisia, connessa ad Artemide, considerata la madre di tutte le erbe: grazie al suo legame con la dea, era ampiamente utilizzata nei problemi femminili (mestruazioni, gravidanza, parto). Ultima erba di San Giovanni è la ruta, potente talismano contro la stregoneria.
Giugno, infine, è il mese in cui principia il segno del Cancro. È simbolo dell’acqua originaria, acqua madre calma e mormorante simile al latte materno, alla linfa vegetale. Chi nasce sotto questo segno è introverso, avviluppante come le acque. Cela spesso i suoi sentimenti, motivo per cui non è facile prevederne le reazioni, ma è un individuo sensibile, premuroso nei riguardi altrui e amante della casa.
Ogni elemento della natura in questo mese ci parla di abbondanza, di forza solare e della potenza del Creato di cui facciamo parte. Raccogliere i primi frutti del nostro lavoro interiore passato è assai piacevole, ma il solstizio ci ricorda di volgere uno sguardo anche a ciò cui andiamo incontro, consentendoci di godere appieno di ciò che abbiamo qui, ora. La terra è fertile, il cosmo favorisce le unioni (non solo quelle matrimoniali, ma, per esempio, anche il prendere coscienza di essere parti integranti del Tutto) e ci viene chiesto di conservare parte della nostra energia per i momenti futuri in cui potremmo averne bisogno. Il fuoco e il calore del sole ci rammentano di creare nelle nostre vite, ma al contempo ci chiedono di bruciare tutto ciò che non vogliamo portare con noi nella parte discendente dell’anno. Avviene in questo periodo un primo abbandono di ciò che è futile, dentro e fuori di noi; allinearsi con queste energie cosmiche ci fa vivere di più secondo natura, cosa che dovremmo sempre tenere a mente, se vogliamo armonizzarci con ciò che ci circonda e continuare a crescere percorrendo la sacra spirale della vita.
Mel
[Credits immagini: ove sprovviste di didascalia, sono state tratte da Pixabay.]
[1] Ricordo che per i culti arcaici a stampo matriarcale, sul quale s’innesta il paganesimo Romano, la verginità non è affiancata al termine di castità. Vergine era colei che manteneva la propria integrità e non elargiva i poteri del proprio sacro tempio femminile a chiunque, ma preservava l’energia divina della sua vulva affinché non si disperdesse e non venisse profanata né inquinata. Per le vergini arcaiche non erano proibiti i rapporti sessuali, ma essi erano circoscritti e venivano attuati in particolar modo per scopi rituali.
Difficilmente sono entrata in un bosco e ho percorso sentieri di montagna da semplice visitatrice. Andare in Natura, per me, ha sempre significato spalancare gli occhi e il cuore e pormi in atteggiamento di ascolto. Da bambina cercavo fate e gnomi sotto le foglie, da adolescente percepivo misteri che non riuscivo a vedere e oggi imparo a leggere e ritrovare parti di me tra le pieghe della corteccia degli alberi, nel vento che spettina le chiome, nei ruscelli placidi, tra la terra umida e scura, nei tuoni di una tempesta.
Beninteso, sono cose che si possono fare anche in città, ma è più semplice scorgere certe manifestazioni su sentieri isolati, laddove la nostra mente è meno inquinata e più quieta, consentendo al cuore di svolgere i suoi naturali compiti.
E allora un giorno di questi me ne sono andata in uno dei luoghi a me più sacri della Valle Argentina, certa che avrei vissuto una giornata bella come poche. Sono partita come sempre: zaino in spalla, scarponi da trekking ai piedi, k-way pronto all’uso e macchina fotografica alla mano. Ma non sapevo che sarei tornata molto diversa da com’ero uscita di casa, molto più me stessa, assai più autentica di prima.
L’accoglienza, una volta giunta sul posto, è stata formidabile come sempre. La Valle Argentina, pur trovandosi a un passo dal mare, regala panorami incredibili, unici nel loro genere, e ho fatto scorpacciata di bellezza e di scatti da conservare.
Trascorsa la prima parte della mattinata, le nubi hanno iniziato a addensarsi sopra di me. Vapori di nebbia avvolgevano i monti e su di esse spiccavano i voli delle rondini che, audaci e allegre, sembravano volersi fiondare addosso a me per poi cambiare bruscamente rotta poco prima dell’impatto, lasciandomi estasiata per i loro giochi acrobatici.
Gli altri trekker che incontravo si guardavano intorno scoraggiati dal “maltempo” in arrivo. Qualcuno apriva gli ombrelli per le prima gocce, altri si rifugiavano sotto gli alberi, altri ancora tornavano indietro di buona lena, sperando che la tempesta non li cogliesse, ma io non avevo nessuna intenzione di andare via.
Ho camminato in quella nebbia godendo del suo silenzio ovattato, del modo in cui avvolgeva ogni cosa. Ho scelto di sostare lì, in quell’apparente nulla, perché sapevo benissimo che era ricolmo di Tutto. Le zolle d’erba morbida e folta accompagnavano i miei passi, mentre scattavo decine di click, incantata dall’atmosfera che si era creata. Ho camminato sulle tane delle marmotte, attenta a non mettere i piedi nei numerosi buchi di accesso alle loro dimore. Ho contemplato i sassi bianchi come la luna, osservato la vita scorrere sui rami degli alberi… e poi ha iniziato a scendere una pioggia più fitta, mentre le nuvole in alto borbottavano senza troppa convinzione.
E allora mi sono tolta gli occhiali dal naso, li ho riposti in una tasca e ho lasciato che il viso si bagnasse, volgendolo al cielo. Ho benedetto ognuna di quelle gocce, col sorriso sulle labbra. L’acqua cadeva sulle rocce e ben presto le piccole conche di quei massi si sono riempite di pioggia, divenendo primitive acquasantiere. Mi sono bagnata le mani di quel bacio, di quello sposalizio tra terra e cielo, profondamente grata di poter sperimentare tanta bellezza.
Ho chiesto all’acqua di lavare via da me ciò che non serviva più e al contempo mi sono fatta un bagno rigenerante nella Vita, la mia. E poi, proprio quando i tuoni iniziavano a farsi più forti, si è fatta strada in me la voglia di cantare e intonare canti-medicina.
In mezzo alla tempesta, nel gocciolio costante della natura e con i vestiti fradici, ho danzato nelle pozzanghere senza curarmi della terra che mi inzaccherava gli scarponi. Cantavo a squarciagola benedizioni per me e per il mondo, riportando a galla un lato di me che tendo a soffocare. Ho lasciato uscire da me il fuoco creativo, incurante dell’acquazzone e degli abiti bagnati.
Lì, sotto quel temporale, c’era una me che voleva essere liberata da tanto, tanto tempo.
Lì, tra le fronde grondanti di quella foresta sacra e secolare, io sono rinata. Mi sono partorita quando il cielo ha rotto le sue acque e la terra ha schiuso le sue porte di bellezza per me.
E nel bel mezzo di tanta meraviglia, ho imparato un’altra importante lezione dalla mia Anima: ho compreso che quando inizi ad Amare anche le tue ombre, tutto cambia. Perché io ho amato immensamente quel temporale (nel mio caso, rappresentazione manifesta di ciò che non ci piace, di ciò che riteniamo brutto e/o avverso), anche se avrebbe spaventato i più.
Ho compreso che, quando nella vita giunge una tempesta, scappare non serve. Trovare riparo neppure. Serve invece riuscire ad attraversarla col cuore che canta a ogni passo, coi piedi che danzano nelle pozzanghere, con le braccia aperte a tutto ciò che arriva, con l’Amore disegnato in un sorriso e fede incrollabile in ciò che è e ciò che sarà. Solo così si può giungere a scorgere la bellezza di una vita che spesso denigriamo e percepiamo come lo sconto di chissà quale pena.
Sono tornata a casa dopo essermi riscoperta selvatica padrona del mio mondo, con la consapevolezza che, ancora una volta, ho viaggiato fuori per riscoprirmi dentro, perché abbiamo bisogno anche di questo: esperire la vita e scoprire così, un passo alla volta, chi siamo davvero.
Mel
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Se seguite questo mio blog da tempo, conoscerete – o avrete intuito – la mia filosofia di vita e saprete anche che amo molto gli animali e la loro energia. Avrete letto più volte nei miei articoli che il mondo che noi definiamo esteriore rispecchia molto quello che abbiamo dentro, la nostra interiorità, e ciò è valido e vero sia a livello individuale che collettivo. Questo è uno dei motivi alla base della teoria del Tutto e della stretta interconnessione tra tutte le cose dell’Universo, già conosciuta in tempi antichissimi.
Ebbene, proprio in virtù di questo mio credo, nelle ultime settimane ho notato un fatto che ha colpito anche molti altri esseri umani, e com’è mia abitudine l’ho interpretato con gli occhi dello Spirito, mettendomi in ascolto con sensi diversi da quelli che definiremmo ordinari. Sto parlando della ricomparsa di molti animali selvatici là dove prima non osavano giungere per via della presenza e del disturbo antropici, eventi che sono stati fonti di meraviglia per molti proprio durante il periodo della quarantena.
“Come in alto, così in basso. Come dentro, così fuori. Come l’Universo, così l’Anima”, cita il motto alchemico-esoterico attribuito a Ermete Trismegisto, di cui tanto vi parlo sempre in questo blog, e lo riporto anche ora, perché lascia comprendere a livello profondo come tutto sia collegato e quanto ogni essere sia connesso a tutti gli altri.
Non è un caso che certi animali si siano manifestati con insistenza nelle nostre vite in quest’ultimo periodo. Gli anima-li parlano già attraverso la loro stessa definizione all’Anima, sono archetipi potenti che ci consentono di vedere al di fuori di noi caratteristiche che possediamo, ma che non sappiamo di avere, o ancora di porre la nostra attenzione su obiettivi che la nostra Anima vorrebbe noi raggiungessimo. Attraverso l’animale, entriamo in contatto con questo mondo altro, ci viene reso manifesto (puoi approfondire leggendo il mio articolo “Magia, simboli e medicina degli animali“). E allora vediamo alcuni dei messaggi nascosti dietro queste ricomparse che sono state eclatanti nell’ultimo periodo.
Delfino
Nei giorni di quarantena lo abbiamo visto lungo i moli, vicino ai porti e non distante dalle rive del mare. Come spirito guida, questo mammifero marino ha la capacità di attivare nuova creatività e aprire dimensioni inesplorate. Invita a trovare soluzioni nuove per vecchi problemi, ad abbandonare la nostra comfort zone a favore dell’avventura, a reinventare le nostre esistenze. L’acqua è l’essenza della vita, così come anche il respiro; le persone con problemi respiratori e polmonari possono trarre grande beneficio collegandosi alla medicina del delfino e imitando la respirazione a zampillo che questo animale usa quando sale in superficie. Non un caso, dunque, che si sia riappropriato dei suoi spazi e che si sia mostrato così spudoratamente proprio in questo periodo di emergenza covid-19. La chiave del suo potere è nel controllo del respiro. Attraverso di esso, può condurci in caverne sotterranee e agli inizi primordiali di noi stessi. Ci chiede di scendere in profondità e al contempo sentire scorrere in noi il prana, l’energia vitale di tutto l’Universo che ha un profondo potere curativo. Strettamente connesso alla medicina di questo mammifero è pure il suono, che è insieme anche energia, movimento. Il delfino aiuta a produrre il giusto suono, la giusta energia interiore in modo da far scaturire manifestazioni esteriori. Infine, ci interroga sui seguenti quesiti: desideriamo stare all’aperto? Abbiamo bisogno di aria nuova? Stiamo trattenendo la tensione? O forse lo stanno facendo le persone che ci stanno intorno? Quali sono per noi le parole e i pensieri in grado di creare? Quando il delfino si mostra, è ora di respirare nuova vita in noi noi stessi, di uscire, giocare, divertirci, esplorare.
Lepri e conigli
Li abbiamo visti tornare a popolare i parchi cittadini e saltare indisturbati nei prati. Lepri e conigli vantano una ricca simbologia, nell’antichità erano associati a Ecate, dunque alla morte, alla fine di un ciclo e al conseguente inizio di uno nuovo, una consapevolezza, questa, che abbiamo avvertito e acquisito proprio negli ultimi mesi. La medicina di questi animali porta sensibilità e senso artistico, fertilità di idee e di progetti. Quanti, infatti, durante la quarantena si sono dimostrati altamente creativi e propositivi nel tentativo di migliorare la vita di molti? Curioso anche notare come le zampe di questi animali consentano di spiccare grandi balzi: quando lepri e conigli si manifestano, è tempo di passare dall’immobilità a un’azione di tipo veloce e scattante. Non c’è tempo per restare fermi, bisogna agire, cogliere al volo le opportunità. Nel caso della nostra quarantena, l’azione è da intendersi a livello interiore, visto che siamo rimasti confinati per lungo tempo nelle nostre case, ma non ci è stato vietato di progettare e mettere in pratica azioni volte all’interiorità. Il cambiamento a cui siamo stati (e siamo ancora) chiamati non prevede rinvii; deve essere attuato al più presto, con urgenza, proprio come accade a un coniglio o a una lepre che debba fuggire da un pericolo o da un predatore. Per la loro vista e i sensi sviluppati, a proposito, aiutano a riconoscere i segnali che l’ambiente ci offre e invitano a dedicarsi a una dieta a base di verdure (anche solo temporaneamente) per mantenersi in buona salute e rafforzare l’organismo, cosa per altro ripetuta da medici e nutrizionisti proprio in questo periodo di emergenza. Lepri e conigli, infine, favoriscono il successo in ciò che si fa e invitano a non lasciarsi sfuggire le occasioni di crescita e miglioramento, perché potrebbero non presentarsi di nuovo.
Cinghiale
Animale adattabilissimo e sfrontato, il cinghiale ha spesso approfittato maggiormente dell’assenza umana per bighellonare tra le vie cittadine, sulle spiagge e nelle strade. La sua è una forza grande e indomita, è la manifestazione materiale dello spirito guerriero e del comando. Lavorare con la sua medicina aiuta a trovare una direzione nella vita. Invita alla potenza del selvaggio, a riscoprire i segreti di se stessi e del mondo. Il cinghiale ci dice che a volte dobbiamo attraversare un periodo in cui sembra che tutto vada a pezzi, un “esaurimento”, in modo che qualcosa di più profondo e di più ampio possa entrare nelle nostre vite, non per niente è un animale iniziatore. Comunica chiaramente che un periodo di distruzione può precederne uno di creazione e rinascita, insegnandoci che il potere della natura è sia distruttivo che creativo, e le due caratteristiche non possono essere divise o separate. Ciò che può essere considerato negativo può diventare positivo con la giusta canalizzazione delle energie, e questo fa parte della medicina del cinghiale. Una peculiarità importante della simbologia di questo animale è il suo consentirci di riscoprirci guide per gli altri, e non è un caso che proprio nell’ultimo periodo molti si siano messi al servizio della comunità in diversi modi, soprattutto a livello spirituale. Infine, quando il cinghiale si mostra è tempo di focalizzarsi sui propri obiettivi e perseguirli con tenacia e grande coraggio.
Cervo
Suscitando maggiore meraviglia e grande stupore rispetto al cinghiale, in alcune località persino i cervi hanno iniziato ad aggirarsi per le città silenziose e immobili. Il cervo rappresenta l’innocenza e il ritorno alla natura, la sua medicina è in grado di condurre a un profondo e radicale rinnovamento. Invita a prestare attenzione ai più intimi pensieri e alle percezioni che abbiamo, senza affidarci troppo alle apparenze. Ci chiede, infatti, di ricercare nuove sensazioni e livelli di percezione che possano crescere ed espandersi nei prossimi anni, dunque invita a un lavoro costante da rivolgersi sul lungo termine. Indica nuove, stimolanti opportunità di rinnovamento, caratteristica che lo accomuna anche agli altri animali citati in questo articolo. Il cervo indica anche un legame stretto con la propria famiglia e con i suoi nuclei più essenziali, invita a non mescolarsi con le energie della folla, ma a mantenersi integri anche dal punto di vista energetico, a proteggersi dalle influenze esterne e tutelarsi. Il cervo ci riporta alla sapienza primigenia degli antichi insegnamenti ed esorta a stabilire un forte legame col bambino interiore, accudirlo in solitudine prima di esporlo ad altre forme di energia. Ricorda anche che esiste una tradizione legata alla natura, una dimensione idonea per i gruppi familiari e per la salute dei giovani, nell’interesse di tutti. Non a caso si è parlato spesso di un ritorno alla ruralità, della forza dei piccoli borghi e delle comunità montane, della voglia di molti di ritrovare il lato selvatico della natura umana. La medicina del cervo consente di affinare i sensi, di percepire anche ciò che non viene detto ed espresso a parole. Quando il cervo si mostra, è tempo di essere gentili con se stessi e con gli altri, risvegliando una nuova innocenza e freschezza. State cercando di forzare gli eventi? Lo stanno facendo altri? State diventando troppo critici e insensibili nei confronti di voi stessi? Quando arriva il cervo, è tempo di aprire le porte a un amore gentile che porterà a nuove avventure.
Cigno
Questo regale uccello è stato troppo spesso disturbato dall’attività dell’uomo, per cui questo periodo di reclusione per noi ha rappresentato un’occasione di riconquista per lui. L’energia del cigno consente di aumentare la sensibilità delle proprie e delle altrui emozioni e in tanti si sono dimostrati emotivi ed empatici in questi ultimi mesi. Rappresenta da sempre un tramite tra il regno metafisico, con le sue dimensioni superiori, e il regno fisico-materiale, espressione della dimensione terrena. La medicina del cigno invita a realizzare la propria vera bellezza, a sviluppare la capacità di collegarsi con nuovi regni e nuovi poteri. Questa capacità di risvegliare la bellezza interiore e collegarla al mondo esterno è parte di quanto la magia del cigno può insegnare. Invita a considerare questa caratteristica in noi stessi e negli altri, a prescindere dalle apparenze. Quando lo facciamo, diventiamo dei magneti capaci di attirare altri a noi, e anche questo è un fatto che si è verificato in modo prepotente nelle lunghe settimane di quarantena. Il cigno invita anche al silenzio, è il totem del bambino, del poeta, del mistico e del sognatore. Insegna il mistero del canto e della poesia, che riescono a toccare il bambino e la bellezza interiori. Non un caso che in questo periodo abbiamo sperimentato le nostre doti canore anche sui terrazzi dei condomini, che molti si siano uniti per scrivere racconti dedicati al momento storico che stiamo attraversando e che in tanti abbiano riscoperto la loro creatività.
Lontra
E’ proprio dei giorni della quarantena la notizia che la lontra sia ricomparsa nel Nord-Ovest italiano, in zone vicinissime a quelle in cui vivo. Questo animale, che come il delfino è altamente collegato all’acqua e alle energie femminili creative, porta il gioco, l’espressività e le curiosità nella vita delle persone in cui si manifesta. La sua medicina aumenta l’immaginazione, dona gioia di vivere e amore. Anche in questo caso, come accade per i messaggi del cervo, ci ricorda di tenere vivo il bambino interiore e ci comunica che la vita può essere divertente, se affrontata con l’attitudine giusta. Le lontre restano sole raramente, sono animali sociali, come l’essere umano. Quando si mostrano, è il momento di trovare un po’ di tempo per il gioco e la spensieratezza, di lasciarsi coinvolgere in attività ludiche e ricreative. Invita a chiederci: stiamo diventando troppo seri e/o ansiosi? Dobbiamo risvegliare il bambino interiore? Infine, ci invita a trattare noi stessi in modo speciale, a prenderci cura di noi con amore materno e a risvegliare un nuovo senso di meraviglia per la vita e tutte le cose che essa porta con sé.
Chissà che qualcuno di questi animali non sia comparso proprio nei luoghi in cui vivete e che non abbia qualche messaggio particolare proprio per voi…
Mel
Le valli dell’entroterra ligure somigliano spesso a luoghi incantati, soprattutto in certi scorci nascosti, conosciuti e raggiungibili solo da pochi. Il silenzio coglie i viandanti che vi si avventurano, insieme alla tipica sensazione di non essere soli e di essere osservati.
Tra questi siti dal sapore ancestrale sono comprese anche le caverne di cui la Liguria è particolarmente ricca (si pensi, per esempio, a quelle dei Balzi Rossi a Ventimiglia, e a quelle di Toirano e delle Arene Candide nel savonese).
Sono sorte leggende su queste spelonche incastonate tra la terra e il mare, tra il mondo in superficie e quello infero della morte. Sono storie che in pochi, ormai, ricordano e vogliono tramandare, ma la loro essenza è tenace quanto l’edera che avviluppa i tronchi degli alberi e tiene insieme con le sue radici i sassi antichi di certe vecchie case. L’anima della leggenda non si esaurisce né si arrende, sopravvive, si aggrappa alle labbra di individui prediletti che ancora amano tramandare parole sussurrate in tempi lontani. Non si sa più se certe storie abbiano avuto origine proprio qui, in questa lingua di terra bagnata dal mare e abbracciata dai monti, o se invece si mescolò ad altre di luoghi distanti dalla Liguria, ma hanno degli aspetti curiosi in comune con altre parti del mondo e vale la pena provare a sentire col cuore cosa esse vogliano ancora comunicarci, quali voci intendano far giungere fino a noi.
Si dice, dunque, che tanto tempo fa le grotte fossero abitate da donne di piccola statura e dall’aspetto spaventoso, chiamate fate da alcuni, donnine da altri. Nessuno osava disturbarle nelle loro dimore; chi lo faceva, scompariva per non fare ritorno. Per questo erano considerate malvagie e assai pericolose e ci si tenevano alla larga da loro.
Ma queste donne non si limitavano a restare nei loro antri. Uscivano spesso all’aria aperta e amavano trascorrere il loro tempo nuotando nei torrenti e nei laghetti di cui l’entroterra ligure è ricco. Dopo essersi immerse nell’acqua e aver goduto della sua freschezza, restavano a riva e lì si prendevano infinita cura dei loro capelli con un piccolo pettine. Questo strumento, tuttavia, non serviva solo a mantenere ordinate le loro chiome, ma era strettamente connesso con le grotte in cui avevano la dimora: se una di loro avesse perso il pettine, non sarebbe più potuta tornare a casa, e questo sarebbe stato fonte di grande sofferenza per la fata.
Un giorno di un tempo ormai perduto accadde proprio che una di queste piccole donne perse il suo pettine, che le cadde di mano e fu portato via dalla corrente del ruscello. A nulla valsero i tentativi di ritrovarlo e lei si disperò. Urlò e pianse tutte le sue lacrime, vagando in lungo e in largo per la valle senza mai riuscire a ritrovare la via che la portasse alla sua grotta né a impugnare di nuovo il suo prezioso pettine.
Mentre la fata errava senza meta, un giovane uomo era intento a pescare sulle rive del torrente. D’un tratto la sua attenzione fu rapita da uno strano, piccolissimo oggetto che si era incastrato tra due pietre, sul greto del corso d’acqua. Lo afferrò tra il pollice e l’indice e lo guardò con lo stupore negli occhi. Conosceva ciò che si diceva riguardo le piccole donne delle grotte e non ebbe dubbi sulla provenienza dell’oggetto. Era un uomo coraggioso e di buon cuore, così non si fece intimorire da ciò che si raccontava sul conto delle fate. Voleva restituire il pettine alla sua proprietaria e non ci fu modo di fargli cambiare idea, così partì.
Sapeva che la sua non sarebbe stata un’impresa difficile: la fata che aveva perso il pettine non poteva essere lontana e non si sarebbe potuta nascondere nella sua grotta, per cui era solo questione di tempo affinché la trovasse. Infine, come previsto, il giovane trovò la piccola donna in riva al torrente, con gli occhi gonfi e arrossati di pianto. La chiamò, mostrandole il pettine che aveva trovato, e la fata, sorpresa, smise di piangere e sorrise. Per ringraziare il buon cuore del ragazzo, lo ricompensò donandogli ricchezze che avrebbero fatto invidia a un re e da allora in poi la sua famiglia visse per sempre nella salute e nell’agio e, così si racconta, ancora oggi i suoi discendenti godono di tali fortune.
La storia presenta diverse somiglianze con altre numerose fiabe popolari di stampo medievale e ha dei punti in comune anche con la cultura celtica, con la quale la Liguria entrò in contatto. Non è così difficile, ormai, leggere il fondo di verità nascosto tra le pieghe della leggenda, una verità ben più antica del Medioevo e persino dell’arrivo dei Celti.
Come Marija Gimbutas ha rivelato e dimostrato con i suoi approfonditi studi sull’archeomitologia, la divinità europea delle origini era femmina. Non dobbiamo immaginarcela come una Dea altezzosa e distante, né dobbiamo pensare che la Grande Dea Madre della Preistoria fosse un idolo. Lei era espressione di tutte le cose viventi e comunicava attraverso di esse. Nell’immaginario arcaico, dunque, gli elementi naturali divennero parti manifeste del corpo della Dea: le acque erano le sue fertili secrezioni vaginali, la terra il suo ventre fecondo, le montagne i suoi prosperi seni, le cavità naturali erano la sua magica e misteriosa porta conoscitrice della vita e della morte, la vulva. Tutto esprimeva la sua grandezza, il suo essere femmina e, perciò, vita.
Gentilmente concessa da MMM a I colori del vento
Le donne di piccola statura della leggenda, nonostante siano ricordate come esseri pericolosi, malvagi e dall’aspetto sgradevole, raccontano in realtà molto di quegli antichi culti remoti che abbiamo dimenticato e che la cultura indoeuropea, patriarcale e cristiana poi hanno distorto e tentato di occultare e cancellare.
Gli studi e le prove archeologiche ci dimostrano che le società primitive erano matrifocali, incentrate sulla donna. A lei spettava il compito di custodire i segreti della Dea, di elargirne i doni ed essere la sua manifestazione vivente. Sono giunte fino ai giorni nostri testimonianze di una ritualità femminile legata al culto dei defunti e ai momenti di passaggio in genere. La donna era Dea per natura, ciclica ella stessa come la vita, la morte e la rigenerazione che ogni mese avvenivano nel suo grembo e in tutto il creato. Ecco perché era lei a conoscere i segreti dell’esistenza. In questo contesto non sorprende, dunque, che le protagoniste della leggenda siano creature femminili.
Nelle caverne, che in Valle Argentina furono utilizzate unicamente per i riti sepolcrali poiché troppo piccole per fungere da dimora, si riproduceva la simbologia del sacro grembo e di tutti i suoi aspetti. È nel ventre della donna che avvengono le più sorprendenti, magiche e misteriose trasformazioni. Nelle sue acque si sviluppa la vita; il buio uterino era quello della morte, ma anche ciò che precede l’esistenza terrena; il suo ciclico sangue – un tempo donato periodicamente alla Madre Terra – conteneva il miracolo della rigenerazione. Non sorprende, dunque, che per via del potere che fino ad allora le era stato riconosciuto, la cultura patriarcale si trovò a dover reinterpretare la sacralità della donna come qualcosa di malvagio dal quale guardarsi. Non riuscendo a estirpare del tutto l’antico culto, la nuova religione pose nelle grotte statue di Vergini e Madonne, che ancora oggi possono essere avvistate in Valle Argentina persino nei luoghi più irraggiungibili. I nuovi arrivati, dunque, sostituirono la Dea e le donne che ne officiavano il culto con Maria, colei che è piena di grazia così come lo erano le vergini antiche.
Gentilmente concessa da MMM a I colori del vento
Gli ehi delle loro voci risuonano ancora oggi sulle montagne, celati dal velo di un credo, quello cristiano, che pur contro ogni suo volere testimonia tempi assai remoti. Tutto questo è comprensibile, poiché è ciò che fanno tutti i conquistatori con i popoli vinti. A non essere accettabili, piuttosto, sono l’oscurantismo in cui ancora viviamo e l’inconsapevolezza nei confronti del remoto passato dell’umanità di cui facciamo parte, che ci racconta una storia differente rispetto a quella propinata dai testi scolastici.
Le divine donne preistoriche legate alle grotte sono state defraudate della loro altezza – sia fisica che spirituale – e hanno assunto in questa leggenda un carattere malvagio, tanto che ci viene detto che chi si avventurava nelle loro dimore non avrebbe più fatto ritorno. Chi si apprestava a percorrere i sentieri che portavano alle grotte (e, quindi, alla Dea) abbandonava la retta via tracciata da Dio, in altre parole: era perduto per sempre. Prendendo in considerazione il contesto di appartenenza di questa leggenda, va detto, tuttavia, che il perdersi nella ricerca delle grotte abbia in sé anche un legame con la morfologia del territorio ligure, aspro e a tratti particolarmente scosceso, tanto che le caverne con accertate testimonianze preistoriche – soprattutto quelle della Valle Argentina – si trovano oggi in una posizione impervia e assai pericolosa. Non è difficile credere che per l’uomo di qualche secolo fa una tale spedizione potesse portare effettivamente alla morte.
Gentilmente concessa da MMM a I colori del vento
Nonostante il tentativo patriarcale di oscurare la grandezza delle dee e delle donne dei primordi, sono sopravvissuti elementi importanti del culto che fu e di ciò che rappresentava.
Nella storia si parla in particolare di uno strumento di fondamentale rilevanza senza il quale la vicenda non sussisterebbe: il pettine. A esso viene attribuita talmente tanta importanza da collegarlo strettamente alla grotta-madre. Il pettine, solitamente, è attribuito alle creature acquatiche, come ninfe e sirene. È curioso che qui sia associato a fate che appartengono a due elementi, anziché a uno soltanto: l’acqua e la terra. Era parte integrante di riti arcaici che vedevano nel “pettinare” le acque un gesto simbolico volto ad evocarne gli spiriti e l’energia. Per il suo legame con l’acqua e con la femminilità, rappresentata dalla chioma da mantenere fluente e ordinata, non sorprende che sia associato alla grotta che, come abbiamo visto, era un luogo fortemente legato alla Dea. Molte grotte sono inumidite da corsi d’acqua e laghi, come accade per esempio in quelle di Toirano (Savona), e questo rappresentava per i preistorici un chiaro rimando alle tiepide secrezioni femminili.
Non va dimenticato anche che nelle antiche società agricole di cacciatori-raccoglitrici si utilizzava uno strumento simile a un pettine (antenato del nostro rastrello) per propiziare la fertilità della terra.
Infine, viene in nostro aiuto anche un’analisi etimologica e linguistica della stessa parola “pettine”, che la collega all’apparato genitale femminile. La sua radice è la stessa di “pettignone”, sostantivo utilizzato anticamente per indicare il pube, ma anche i crini che circondano la vulva, secondo quanto riportato da Giovenale. Pettine è pure un altro nome per indicare la conchiglia e il mollusco, in particolare la capasanta; inoltre, la parola greca kteìs, che indica il mollusco, significa sia pettine che vulva.
Lo strumento della leggenda, dunque, è un chiaro riferimento non solo alla fertilità della Madre Terra e del suo grembo, ma anche al mondo ligure, diviso tra i monti e il mare e dei quali porta il sapore. Il pettine diviene qui chiave che consente di accedere a una realtà altra, magico talismano atto a dirigere sapientemente le energie del creato. È possibile che anticamente il pettine della storia fosse in realtà la valva di una conchiglia, che era spesso inserita nei corredi funebri rinvenuti nelle grotte, com’è emerso dai rilevamenti archeologici in Valle Argentina, precisamente nella Tana della Volpe (Triora) e nell’Arma della Gastéa (Borninga, presso il borgo di Realdo nel Comune di Triora). Non è difficile credere che le fate della storia si riferiscano a donne che avevano il sacro compito di accompagnare i defunti nel loro viaggio di rinascita, restituendoli al grembo della Madre con una ritualità specifica, a noi oggi sconosciuta. Questo si ricollega anche con quanto si diceva poc’anzi riguardo il non fare più ritorno dal ventre delle grotte per chi vi si avventurava. Riletto in questa chiave, dove il volto più oscuro della Dea si farebbe preponderante, anche l’epilogo della storia potrebbe assumere una sfumatura differente. Il ritrovamento del pettine da parte del giovane potrebbe essere visto alla stregua di un presagio, il segnale del suo prossimo ritorno al grembo della Madre cosmica, tant’è che si dice che non patì più per salute e povertà. Dalle leggende provenienti da tutto il mondo, soprattutto quelle riguardanti l’area celtica – che ebbe degli influssi anche sul territorio ligure – apprendiamo che il mondo fatato e quello oltremondano sono strettamente collegati. Chi vi accede non torna indietro, rimane in quel luogo sospeso nel tempo e nello spazio dove non esistono dolore e sofferenza. Lì il cibo è abbondante e sempre squisito, accompagnato dalle migliori bevande mai assaggiate da labbra umane, e la musica rallegra gli animi, caratteristiche che ritroviamo nel lieto finale della leggenda.
Un altro elemento utile a ricostruire l’importanza del culto della Dea è rappresentato da ciò che consegue la perdita della strada che conduce alla grotta casa-anima. Quando la donna-fata realizza di aver smarrito il suo pettine, viene sopraffatta dalla disperazione. È condannata a tutti gli effetti a un esilio, poiché ha perso il contatto con la sua femminilità (il pettine) e il suo mondo interiore (la grotta).
Questo evento reca con sé un significato assai profondo e di grande spessore che vale la pena indagare. Chi si allontana dalla strada della Madre è destinato a perdere se stesso, a separarsi dalla magica connessione con il ciclo vita-morte-vita, e ciò porta a catastrofiche conseguenze, le quali oggi sono sotto lo sguardo di tutti noi. Come la fata, anche noi abbiamo perduto il contatto con la Grande Madre, la fonte della nostra esistenza. Ci siamo scollegati da essa, ne viviamo separati e non ci riconosciamo più come sue estensioni. Insieme a questo abbiamo dimenticato il rapporto col sacro, trasformando in traumi i potenti momenti di passaggio che siamo chiamati ad affrontare durante la vita. Non viviamo più d’amore e armonia, ma di paure e conflitti che ci dilaniano dall’interno, perseguitandoci allo stesso modo in cui la perdita del pettine ha tormentato la fata. Tuttavia, il suo strazio è pure quello che fu delle donne che ai tempi in cui nacque questa versione della storia dovettero abbandonare il loro credo incentrato sulla Dea, pena la persecuzione.
Nei miti, nelle leggende e nelle fiabe riecheggia ancora la grandezza dei culti antichi, ma sono anche dirette testimonianze di una storia che attraverso di essi rivive e può essere riportata alla luce. Prossimamente visiteremo più da vicino le grotte della Valle Argentina, scavando in quel passato fatto di anfratti bui e di difficile interpretazione, ma che testimonia certamente riti arcaici femminili di cui abbiamo perso memoria.
Mel
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Immagine di copertina gentilmente concessa da MMM a I colori del vento.
Bibliografia:
La natura profuma, canta e si espande. L’amore che coinvolge tutte le creature si respira nell’aria, insieme a un’atmosfera festosa quasi inspiegabile, ma tangibile. E’ maggio, che deve il suo nome a Maia, feconda e prospera divinità romana associata al risveglio della natura nella stagione primaverile e alla quale era dedicato proprio il primo giorno del mese. Ma maggio, secondo alcuni, deriverebbe anche da Maius, Maiestas, maiores, che indicano la maggiore età di questo mese in cui la primavera non è più fanciulla acerba, ma donna adulta, matura, piena.
E’ un mese che fin da tempi antichissimi fu dedicato alla Grande Madre e il motivo dell’associazione con lei è facilmente intuibile. Tutta la natura ci parla di un’energia femminile molto forte in questo periodo dell’anno, dove l’amore, la vita e la maternità sono elementi portanti di tutto il creato.
Dalla Grande Madre si passò in epoca romana a Maia, anche conosciuta come Bona Dea, Fatua o Fauna. Era casta e severa e veniva descritta come una donna vestita con abiti lunghi e un serpente nella mano sinistra levata. Nei suoi templi era esclusa la presenza maschile e fu chiaramente una prefigurazione della Madonna cristiana alla quale ancora oggi è dedicato il mese.
Essendo il quinto mese dell’anno, il suo numero è il cinque. Nel mondo esoterico, dunque, l’associazione con il pentagramma, la stella a cinque punte, è inequivocabile. Esso rappresenta figurativamente la perfezione umana, com’è noto dal disegno dell’uomo vitruviano di Leonardo, ma anche quella dell’universo, in quanto a ogni punta sono associati gli elementi del mondo naturale e spirituale: acqua, aria, terra, fuoco ed etere. Per questo il cinque è simbolo di vita universale, di individualità, della mediazione tra terra e cielo, ma rappresenta anche l’attività positiva che porta all’evoluzione. Talvolta questa attività può tendere al suo opposto, quindi al negativo e all’involuzione. In alcuni testi antichi, il cinque è associato anche alla dea Venere, che in origine era assai diversa da come siamo abituati a conoscerla.
Ella era infatti una divinità legata alla generazione della vita e al rinnovamento, e ogni primavera riemergeva dalle acque del mare portando fioriture, crescita, bellezza e gioia nel mondo. Era talmente bella e sensuale che tutti volevano che rimanesse per sempre a benedire i grembi delle madri e il ventre della terra. Non è quello che facciamo anche noi quando la Primavera esplode in tutto il suo tripudio di colori, profumi, suoni ed energie?
Già nei mesi scorsi abbiamo visto come la Primavera, che ormai è al suo culmine, sia resurrezione della vita universale. L’energia di questo periodo è paragonabile a quella del mattino, ha l’oro in bocca, è piena di magnificenza. In Primavera si ripete l’atto primordiale della creazione cosmica.
Proprio in virtù di questo sentire ebbro di gioia e gratitudine, i primissimi giorni del mese sono sempre stati dedicati alla celebrazione della natura. In queste feste estatiche ed euforiche i veri protagonisti erano i fiori, le piante e gli alberi e tanti erano i riti collegati alla battaglia simbolica tra l’Inverno e la Primavera, con la vittoria di quest’ultima. Ma in questo periodo era tempo di festeggiare anche l’unione del maschile e del femminile nello hieros gamos, le nozze sacre. In tempi ormai lontani da noi, venivano scelti dalla comunità due fanciulli che avrebbero rappresentato le due divine polarità, il Dio e la Dea, e avrebbero intrecciato e unito i loro corpi nelle sacre celebrazioni di Beltane. (Puoi leggere anche l’articolo “Beltane, Floralia e Calendimaggio: tre nomi per una sola festività“).
Foto tratta dal film “Le nebbie di Avalon” (2001) rappresentante la scena delle nozze sacre.
Non era un rito unicamente carnale, come lo definiremmo erroneamente oggi, ma racchiudeva in sé simbologie importanti, cosmiche e di grande valore per l’intera comunità, laddove la sessualità non era considerata peccaminosa, ma sacra ed estatica unione dal sapore profondamente spirituale.
Una diceria popolare vuole che questo non sia il periodo adatto ai matrimoni, nonostante fosse proprio a maggio, con la festività di Beltane, che i Celti si univano in matrimoni della durata di un anno. Pare, infatti, che chi si sposi in questo periodo sia destinato all’infelicità: “sposa maggiolina presto vedovina”, recita uno dei tanti proverbi dedicati all’argomento. Si attribuisce questa credenza al fatto che per i Romani questo momento dell’anno era dedicato, oltre che ai già citati Floralia, anche ai lemures, gli spiriti di coloro che erano morti precocemente, non sposati e senza figli. Era considerato pertanto di cattivo auspicio sposarsi in un mese in cui si ricordavano queste anime tormentate.
Tuttavia, trovo altamente probabile che tale proverbio derivi dal cristianesimo: proprio in vista delle unioni estatiche ed ebbre di piacere di questo mese che si celebravano liberamente tra uomini e donne che veneravano Madre Natura, la nuova religione vedeva come peccaminosi e demoniaci i matrimoni celebrati a maggio, pertanto li bandì, marchiandoli come infausti e sfortunati.
Altra celebre usanza legata a questo mese e alle celebrazioni dedicate alla Natura c’è quella del Palo di Maggio, attribuita alle popolazioni germaniche giunta in Italia con le invasioni barbariche. Per questi popoli l’albero assumeva un ruolo importante, e i riti che lo riguardavano si innestarono su quelli riguardanti la dea Flora romana. Per queste popolazioni il cosmo era simboleggiato da un albero che racchiude in sé la ciclicità della vita, la fecondità e l’immortalità. Nella notte fra il 30 aprile e il 1° maggio gruppi di giovani si recavano nei boschi a procurarsi un tronco per poi piantarlo nella terra, piazza principale del paese o davanti alle case delle autorità. Si legavano sulla sua sommità nastri colorati, fiori e frutti, e poi si effettuava una danza circolare intorno a esso. Quella del Palo di Maggio è una tradizione con chiari rimandi alla riproduzione, dove il tronco è il sesso maschile che penetra la terra, elemento femminile, per fecondarla e dare inizio a un nuovo meraviglioso ciclo vitale. Il rito, inoltre, aveva come protagonista l’Albero Cosmico, l’Albero della Vita.
Come si è già detto, l’impronta pagana delle celebrazioni di Calendimaggio non riceveva l’approvazione della Chiesa, che fin dal Medioevo tentò di limitarne gli aspetti più licenziosi o addirittura mutarlo in festa cristiana. Siccome i fedeli non si adeguavano facilmente al nuovo culto, istituì con la Controriforma la figura della Madonna come regina di Calendimaggio e di tutto il mese.
Per il calendario Celtico Ogham il 13 maggio si entrava nel mese dedicato al Biancospino, albero dalle forti valenze magiche e collegato al mondo fatato.
Per questo motivo, era vietato tagliarlo, ma i suoi rami, a cui si attribuivano poteri apotropaici e che si appendevano agli usci, potevano essere recisi solo la mattina di Beltane, quando le fate erano più ben disposte verso gli uomini che non avrebbero abusato della loro benevolenza. Il biancospino era considerato anche protettore dei matrimoni.
Gli animali del mese sono le api per la loro importante azione impollinatrice e gli uccelli canterini, in particolar modo l’usignolo, simbolo della gioia e della quiete spirituale.
A maggio, infine, principia il segno zodiacale dei Gemelli, l’ultimo del cosiddetto Interludio Superiore, costituito insieme all’Ariete e al Toro. Segno d’Aria, simboleggia tutto ciò che è volatile, leggero. La caratteristica principale del Gemelli è quella della duplicità, della compresenza degli opposti; maschile e femminile, tenebra e luce, interno ed esterno. Chi nasce in questo segno è spesso contraddittorio e rispecchia le energie di Mercurio, messaggero degli dèi, giocondo e comunicativo. E il Gemelli è fortemente espressivo, è un maestro nell’arte della comunicazione. Le sue attività più amate sono spesso quelle cerebrali e gioconde.
Copyright immagine: fredmantel
D’altronde il periodo chiede a tutti noi di essere espressivi: espressioni materiali dello Spirito, ma anche comunicativi: siamo portati per natura a riprendere con maggiore insistenza una vita sociale, ci espandiamo e ci apriamo con maggiore facilità, dopo i più solitari e introspettivi mesi invernali.
Buon giocondo, fertile e prospero maggio a tutti.
Mel
Oggi vi racconto una storia, la mia. Lo faccio perché credo ce ne sia bisogno e che la mia esperienza possa essere utile ad altri.
Una decina di anni fa avevo aspirazioni grandiose per me (o almeno così le vedevo allora). Mi ero iscritta all’Accademia di Belle Arti, mi sarei laureata e poi avrei fatto finalmente il lavoro per cui pensavo di essere nata. Avrei avuto una casa mia, una vita mia, sarei stata felice.
Eppure i piani che l’Universo e la mia Anima avevano per me erano altri, e così il bell’arazzo che avevo immaginato iniziò a sfumare. Un pezzo alla volta, si disintegrò, lasciandomi col vuoto fra le mani.
Non sto qui a riportare tutte le difficoltà che incontrai nel mio percorso di studi, perché non servono ai fini di questo articolo, ma sappiate che furono molte, una dietro l’altra. Giunsi in breve tempo a sentire che la strada che avevo scelto non fosse quella giusta, così all’ultimo decisi per un drastico cambio di rotta. Abbandonai l’Accademia dopo aver dato l’ultimo esame che mi mancava prima della discussione della tesi. Per alcuni fu follia, per altri coraggio, ma non è questo l’importante. All’epoca per me fu una crisi esistenziale di portata epocale che mi sarei trascinata dietro per diversi anni e che oggi ringrazio come la mia migliore amica. Fatto sta che non mi laureai e questo mi fece sentire una persona di scarso valore in ogni ambito della mia vita. Non ero nessuno perché non c’era nessun foglio a definirmi, a darmi un’identità, a dire che io valevo qualcosa. O almeno, questo era quello che pensavo.
Negli anni a venire questa convinzione si cristallizzò in me e mi trasformai nel fantasma di me stessa. Non potevo avere voce in capitolo su alcuna questione, perché non ero nessuno, ero un fallimento totale. Vivevo costantemente paragonando le mie sconfitte alle smaglianti vittorie di altri e non facevo che correre come una forsennata alla ricerca di qualcosa che mi desse la possibilità di riscattarmi almeno un po’, di riacquistare luce e valore agli occhi altrui, ma la verità era che avevo bisogno di trovare quella luce e quel valore dentro di me, non all’esterno. Solo che ancora non lo sapevo.
Nonostante tutti i miei studi e le mie conoscenze, non mi sentivo in diritto di parlare, di di creare una professione che fosse mia, di entrare in qualsiasi discorso in cui un laureato avrebbe potuto darsi un tono, facendomi sentire ancora più inutile.
Sono trascorsi anni da allora, anni in cui ho imparato a lavorare sodo su di me e a vedere il mondo secondo altri paradigmi. Non condanno niente di quel periodo, tornassi indietro ripeterei ogni tappa, perché mi è servita a trasformarmi in ciò che sono oggi: un individuo consapevole della propria Luce interiore e intenzionata a farla brillare e donarla al prossimo, nonostante le pareti di casa mia non siano affollate di attestati e certificati impreziositi da belle cornici. E trovo ci sia molto da riscoprire in questo concetto.
Siamo così abituati a racchiuderci in definizioni, a guardare all’autorità altrui come fosse una caratteristica divina imprescindibile che non ci accorgiamo di quanto questi meccanismi siano per noi deleteri. Ci sono non laureati che hanno una ricchezza interiore e un’apertura mentale che una laurea non gli avrebbe mai dato. Ci sono persone che proprio per non aver frequentato le “scuole alte” hanno avuto modo di sperimentare la vita in modo differente, assaporarla senza dogmi e preconcetti, perché diciamolo: l’istituzione scuola dei giorni nostri non solo fa acqua in più punti, ma ha un rigore e una rigidità tali da impedire alla sacra creatività di manifestarsi negli individui. Oggi l’educazione è divenuta qualcosa di molto simile alla prigionia, poiché è superata, obsoleta e molto del sistema scolastico andrebbe rivisto e modificato a partire dalle sue radici. La libera espressione delle facoltà di un individuo e le naturali inclinazioni dell’allievo dovrebbero sempre essere prese in considerazione dall’educazione, che non può essere uguale per tutti, indistintamente. Ogni essere umano costituisce un universo a sé, cosa che l’educazione moderna non contempla, poiché il fine ultimo è quello di incasellarci, rendendoci apparentemente tutti uguali, ma profondamente frustrati e pieni di conflitti e traumi interiori.
Con questo non voglio sminuire i titoli di studio di nessuno, sia chiaro, ché se non ci fossero specialisti in medicina o in architettura (per fare un esempio), molto verrebbe a mancare nella nostra società e nel benessere umano. Conosco tante gente che non ha una laurea eppure il suo sapere ha un valore inestimabile, perché fa esperienza della vita con una saggezza che sarebbe molto utile da divulgare. Arricchirebbe e migliorerebbe le esistenze di molti, eppure molti di loro, come ho fatto io per lungo tempo, non osano diffonderla perché sentono di non averne il diritto.
Trovo che sia giunto il momento di iniziare a disgregare questo dannoso schema mentale collettivo. Abbiamo bisogno di un mondo che smetta di aspirare alla staticità e alla calcificazione delle vecchie idee a favore dell’apertura di cuore e di mente che in molti possono offrire in base al loro individuale sentire. Cambiare prospettiva e vedere le cose in modo differente da quello che il Sistema ci insegna dovrebbe rappresentare per tutti una ricchezza, una fonte di confronto costruttivo e di scambio culturale. Invece ci sentiamo inferiori, alla stregua di scarti umani indegni di qualsiasi considerazione.
Sembra che oggi, se non hai una laurea, devi tacere. Non importa se quello che hai scoperto o se il tuo modo di vivere potrebbe rivoluzionare il mondo. Devi tacere lo stesso, perché non sei nessuno. Eppure anche il celebre Einstein non era nessuno prima di formulare le sue rivoluzionarie teorie, ma ce lo siamo dimenticato.
Nel 1998, Giuliano Preparata, docente di Fisica all’Università Statale di Milano, parlava così a Report.
⚗️La Scienza è una vocazione, non è carriera, diceva. Il vero scienziato è curioso e aperto nei confronti delle ipotesi, delle domande e delle teorie proposte da chi non è interno all’ambiente scientifico.
⚗️La vera Scienza non si chiude in se stessa, non dà assolutismi, non promulga dogmi fissi e immutabili nel tempo.
⚗️Se giungessero un Einstein o un Pitagora a bussare alla comunità scientifica odierna con in mano le loro teorie, nessuno li considererebbe.
Questo si diceva nel 1998. In un programma Rai. Mi chiedo se oggi, nel 2020, un tale intervento sarebbe accettato e mandato in onda senza censure. Di seguito trovate il video, nel caso in cui foste interessati a vederlo e ad ascoltarlo.
E’ un discorso ben più profondo di quanto potrebbe sembrare e che tocca molti più ambiti di quello accademico e/o scientifico. Per fare un esempio terra-terra, vale anche per il nostro strettissimo sistema di credenze personali. Basta che arrivi uno da fuori a dire: “Oh, guarda che forse non è come la vedi tu, prova a guardare le cose da quest’altra prospettiva”, che subito ci si inalbera. E allora inizia tutta una sfilza di: “che diritto hai, tu, di dirmi che le cose non stanno come dico io? Che titolo possiedi, tu? Non sai quante lauree ho io! Non parlare di quello che non sai!”. E’ vero o no? Quando invece a volte basterebbe smettere di indossare la maschera corrosiva dell’orgoglio e dell’arroganza e restare in quello stato salutare di curiosità permanente in cui vivono i bambini, quella vivacità di spirito che non vede solo bianco o nero, ma può mettersi nelle condizioni di percepire, cogliere e fare proprie anche tutte le sfumature che ci sono nel mezzo. Senza contare che, come al solito, se non ci fosse qualcuno (o qualcosa) a dirci che le cose possono essere fatte/sentite/vissute in modo diverso non ci sarebbe mai evoluzione in nessun ambito, ma solo la staticità della morte.
Immaginate se i nostri antenati preistorici avessero rifiutato l’uso del fuoco o le tecniche agricole per orgoglio, “perché si è sempre fatto così”. Dove saremmo, oggi? Ci saremmo?
(Ah, per inciso: non vale dire “sarebbe stato meglio, perché l’uomo moderno è la rovina di tutto”… 😏 )
Per portare un altro esempio, la celebre scrittrice di libri di self-help Louise Hay, che ha fatto tanto bene a una buona fetta di umanità e che continua a farlo nonostante abbia ormai lasciato il suo involucro mortale, non aveva nessun “alto” titolo di studio. La sua scienza era il suo personale sentire, dal quale si lasciava guidare con amore infinito e con altrettanto amore lo divulgava senza presunzione. Chi sentiva risuonare in sé le sue parole, provava a metterle in pratica. Diversi hanno cambiato radicalmente la loro vita “solo” per aver ascoltato i consigli di Louise. E non era una psicologa, una psicoterapeuta, un’analista, una psichiatra, una neuroscienziata. Era un individuo che nella sua vita aveva sperimentato tanta sofferenza da accendere in lei una scintilla che altrimenti, forse, non sarebbe mai scattata. Quella scintilla la condusse a fare esperienza delle cose da prospettive inaspettate. E quel suo cambiamento di visuale, infine, ha cambiato l’esistenza di tante persone.
Questa è un’era che, a dirla tutta, avrebbe tanto bisogno dei semplici, di uomini e donne che smettano di salire su piedistalli fragili e instabili e che si mettano invece al servizio della comunità, che, a prescindere dal titolo di studio, dedichino i loro talenti migliori a vicini di casa, a fratelli e sorelle, a figli, genitori e amici. C’è bisogno di gente che con umiltà dia punti di vista differenti senza salire su nessuna cattedra, individui che si dimostrino di ampie vedute e che parlino il linguaggio semplice della vita stessa, ché la vita non è complicata come ci hanno fatto credere che sia. E’ necessario che si ritrovi l’importanza di un insegnamento gomito a gomito, come avveniva nelle antiche botteghe artigiane, e non solo per quanto riguarda la scuola, ma soprattutto per tutte quelle discipline che sono ancora a portata di pochi a discapito di molti. Per fiorire, l’umanità necessita di imparare e trarre ispirazione dai talenti e dall’esempio altrui, di ritrovarsi in cerchio per condividere saggezza e conoscenze, ognuno come pari di tutti gli altri, a prescindere dal titolo di studi o dallo status sociale. Abbiamo bisogno di più semplicità e di toni meno altisonanti, perché il linguaggio semplice della quotidianità è più efficace e ben lontano da quello cattedratico.
In conclusione, credo che il mondo si cambi una persona alla volta (cit. Alfredo Jaar) e allora, come ho sempre affermato in questo mio blog, I started with the man in the mirror, come cantava Michael Jackson: comincio a cambiarlo da me, dalla donna che vedo riflessa nello specchio ogni mattina, impegnandomi a essere voce fuori dal coro quando sarà necessario, a non farmi mai più condizionare da schemi collettivi che non sento giusti per me e a donare ciò che sono e che ho imparato all’umanità, con l’auspicio di essere d’esempio. Comincio dal punto di partenza, ma con rinnovamento: non ho una laurea… e valgo, sì. Valgo perché il mio sentire è sacro e non può essere contestabile, è mio e mio soltanto. Valgo perché sono sacra io stessa, proprio come tutti gli altri esseri, né meno né più.
E così come valgo io, vali anche tu.
Mel